Di liberi consorzi comunali avremmo voluto non scrivere più, visto che lo abbiamo fatto (inutilmente) prima, durante e dopo il deleterio parto legislativo. Pazienza, prima o poi dobbiamo fare i conti con questo nuovo ente intermedio, commissariato fin dal suo concepimento. Peraltro, che il sistema sia da tempo inceppato è dimostrato dall’estenuante numero dei rinvii dei termini originariamente previsti per l’elezione degli organi di governo.
Al netto degli incubi rappresentati dagli ATO-rifiuti, abbiamo ormai metabolizzato che le forme associative dei Comuni risultano pur sempre una proiezione degli enti stessi e che il meccanismo della rappresentanza di secondo grado risulta essere compatibile con la garanzia del principio autonomistico, dal momento che, anche in questo caso, non può essere negato che venga preservato uno specifico ruolo ai Comuni titolari di autonomia costituzionalmente garantita, nella forma della partecipazione agli organismi titolari dei poteri decisionali, o ai relativi processi deliberativi, in vista del raggiungimento di fini unitari nello spazio territoriale reputato “ottimale”.
Così come confidiamo sul fatto che attraverso il voto ponderato verrà assicurata la rappresentanza di ogni Comune e garantita la rappresentanza delle minoranze. Tanto dovrebbe bastare a renderlo rappresentativo degli enti che vi partecipano, che rimarranno capaci di tradurre il proprio indirizzo politico in una reale azione di influenza sull’esercizio in forma associata delle funzioni di area vasta.
Non ci rassegniamo però sul fatto che i Comuni non siano liberi di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, non sono realizzabili, con la forma consortile imposta, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento e questo alla faccia di quella “libertà” di scelta prevista dall’art. 15 dello statuto siciliano. In sostanza, in un contesto istituzionale in cui palesemente l’ingegneria legislativa non combacia con la geografia funzionale, il sacrificio imposto all’autonomia comunale non è in grado di raggiungere l’obiettivo cui è diretta la citata previsione statutaria.
E non ci rassegniamo nemmeno sul disinteresse del legislatore in ordine alla cosiddetta “polverizzazione dei Comuni”. Ancora oggi risultano assegnate al più piccolo Comune, con una popolazione di poche centinaia di abitanti, come alle più grandi città del nostro ordinamento, le medesime funzioni amministrative, con il risultato paradossale di non riuscire, proprio per effetto dell’uniformità, a garantire l’eguale godimento dei servizi, che non è certo il medesimo tra chi risiede nei primi e chi nei secondi. Basterebbe, al riguardo, ricordare che riusciti interventi strutturali in risposta al problema della polverizzazione dei Comuni sono stati realizzati in altri ordinamenti, spesso attuando la differenziazione non solo sul piano organizzativo ma anche su quello funzionale. Ciò è avvenuto, ad esempio, in quello francese, dove il problema è stato risolto sia con la promozione di innovative modalità di associazione intercomunale, sia attraverso formule di accompagnamento alle fusioni; in forme diverse, ma sempre con interventi di tipo organico, risposte sono state fornite anche in Germania, nel Regno Unito e in molti altri Stati europei come Svezia, Danimarca, Belgio, Olanda.
Massimo Greco