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DE INVIDIA

Il satiro frigio Marsia suonava benissimo il flauto, tanto bene che uomini e donne, dei e dee e persino gli animali d’ogni specie rimanevano estasiati nell’ascoltarlo. Come spesso succede, però, c’era qualcuno che sapeva suonarlo meglio di lui il flauto. Costui era “nientedipocodimenoche” il dio Apollo. Marsia non se ne dava pace, era il suo unico cruccio, aveva un solo pensiero: dimostrare di essere più bravo di quello. Non saranno mancati, invero, quanti (in primo luogo avvenenti fanciulle) complimentandosi con il povero satiro ne solleticavano la naturale vanità, sottolineando che certamente Apollo se non fosse stato un dio non avrebbe mai suonato così bene e che, ad ogni buon conto, lui Marsia veramente suonava da dio. L’incauto in un mix (diremmo oggi) di vanagloria, di desiderio d’affermazione di sé e di esasperato disappunto per le capacità indubbie del celeste rivale non esitò a sfidare a duello Efebo, che forse già un po’ scocciato dalla impudente sfacciataggine, non aspettava altro ed accettò. Il duello si svolge. Si conclude come può concludersi qualsiasi duello con un dio. E poiché Apollo non conosceva molto bene la misericordia cristiana, riservò al malcapitato satiro una fine che potesse servire anche come esempio ad eventuali, ulteriori sprovveduti: lo scorticò vivo. Ma anche la misericordia divina, del nostro Dio intendo, fu messa a dura prova da uno dei suoi più stretti collaboratori che, non accontentandosi di brillare come la stella più bella, tanto da essere chiamato Lucifero, non si rassegnava ad emanare una luce meno intensa della ‘luce’ stessa, alla quale in compagnia di una schiera di suoi degni compari si ribellò. La ribellione si concluse come tutti sappiamo: Lucifero “and company” furono cacciati via dal Paradiso e sprofondati nell’inferno più profondo dove aspettano la genìa più perfida dei figli di Adamo ed Eva.
Nessuno può dirsi immune dall’invidia; anche gli spiriti più eletti ne hanno certamente assaporato l’amarezza. Prendere atto che qualcuno è più capace, più bello, più bravo di noi, bisogna dirlo, non è il massimo; per cui, ci troviamo ad un bivio: o cercare di emulare l’oggetto del paragone ovvero lasciarsi rodere dall’invidia, per quello che gli altri sono e noi non saremo mai. L’emulazione farà migliorare gli aspetti del nostro essere, perché ci fa capire quanto sia difficile dare il meglio di sè; l’invidia, invece, ci fa rodere, incancrenire, illivorire dentro, facendoci morire sotto spietati tormenti giorno dopo giorno, attimo dopo attimo.
Avremo sempre qualcuno da invidiare!
Quando ero un po’ più giovane, transitava ancora qualche carretto siciliano alla sommità del quale si trovava scritto: l’invidioso crepa. Io, giovane studente, guardavo con una certa indulgenza quella scritta che ritenevo verbalmente scorretta. Mi dicevo: dovrebbe essere scritto crepi (congiuntivo desiderativo) e non crepa (indicativo o imperativo).
Solo da poco ho capito che il verbo era giusto e messo al posto giusto. Infatti, si tratta dell’indicativo, del modo della realtà: l’invidioso crepa, divorato dalla sua stessa invidia, nella quale si consuma (senza bisogno di amuleti) la vendetta dell’invidiato.

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