Cent’anni fa, il 21 gennaio 1921, nasceva il Partito comunista d’Italia (Pci), sezione della Terza Internazionale comunista (Ic), da una scissione dal Partito socialista italiano (Psi), che celebrava a Livorno il suo 17^ congresso nazionale. Il 15 gennaio erano giunti a Livorno, al teatro Goldoni 3 mila delegati al congresso nazionale del Psi, distinti in tre raggruppamenti: riformisti, massimalisti e comunisti. I temi del congresso erano in estrema sintesi sostanzialmente due: fare o non fare la rivoluzione e accettare o respingere le 21 condizioni per aderire alla 3^ Ic. Tra le 21 condizioni poste dalla Terza Internazionale comunista c’erano il cambio di nome del partito da Partito socialista a Partito comunista e l’espulsione dal partito dei riformisti. I riformisti erano la componete minoritaria del Psi, ma aveva il controllo della Confederazione generale del lavoro (Cgl), della Lega delle cooperative e dei Comuni amministrati dai socialisti. I massimalisti erano la componente maggioritaria del Psi, che a parole volevano la rivoluzione ma nei fatti non facevano nulla. La componente comunista, guidata da Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci, puntava a spostare sulle sue posizioni i massimalisti e espellere i riformisti. I massimalisti guidati da Giacinto Menotti Serrati, che volevano conservare l’unità del partito, erano contrari a cambiare nome al partito e espellere i riformisti, guidati da Filippo Turati e Claudio Treves. Il 21 gennaio venivano messe a votazione le mozioni delle tre componenti. Passarono le mozioni dei riformisti (14.695), che di rivoluzione non ne volvano sentir parlare e di aderire alla Terza Internazionale comunista non ci pensavano, e quella dei massimalisti (172.487), che lanciavano roboanti proclami rivoluzionari ma concretamente non ci mettevano mano. Non passò la mozione dei comunisti (58.783), che usciranno dal teatro Goldoni dopo aver sentito Bordiga che, dal tavolo della presidenza pronunciò con voce dura queste parole: “La frazione comunista dichiara che la maggioranza del Congresso col suo voto si è posta fuori dalla Terza Internazionale comunista. I delegati che hanno votato la mozione della frazione comunista abbandonino la sala e sono convocati alle 11 al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della Terza Internazionale”. Fu l’atto di nascita del Pci, che neppure lui fece la rivoluzione, ma – come osserva la Repubblica – forse fece di più e meglio. In questi giorni, quell’evento viene ricordato da riviste, settimanali e quotidiani. La domanda che riscorre spesso in queste celebrazioni è questa: la nascita del Pci dalla scissione del Psi era necessaria, non sarebbe stato meglio rimanere nel Psi per contrastare l’offensiva fascista? Non è facile rispondere a simili domande in maniera univoca. Certo, la scissione non arrestò l’avanza dei fascisti, che da lì a meno di due anni nell’ottobre del 1922, giunsero al governo del paese. Bisogna calare quella domanda nel contesto dell’Italia del primo dopoguerra non tanto per trovare una risposta, quanto per capire se avesse un senso la nascita di un nuovo partito della sinistra per quelli che vissero in quegli anni drammatici. Il successo della rivoluzione di ottobre in Russia aveva galvanizzato le masse popolari dei paesi europei che avevano sofferto della guerra più degli altri strati sociali collocati nelle alte sfere della società, che ne avevano sofferto di meno, non l’avevano patito per nulla, se non addirittura avvantaggiati. “Fare come in Russia” era lo slogan che si sentiva gridare nelle manifestazioni popolari. Di queste aspettative popolari se ne avvantaggiò il Psi, che nelle elezioni del novembre 1919 ottenne il 33,3 per cento dei voti e 156 seggi in Parlamento diventando il primo partito italiano. I fasci di combattimento di Mussolini non ottennero neppure un seggio. Tutta l’Italia, come del resto anche gli altri paesi europei, era percorsa da forti tensioni sociali nelle campagne con l’occupazione delle terre da parte dei contadini, scioperi di massa contro il caroviveri, e con l’occupazione delle fabbriche nelle città del nord. A questi fermenti sociali, che facevano pensare oggettivamente ad una situazione rivoluzionaria, il non seppe dare uno sbocco politico rivelandosi inadeguato a dominarla e governarla. “Trascurare i movimenti cosiddetti spontanei, rinunciare a dare loro una direzione consapevole, può avare conseguenze molto serie e gravi”, osservava Gramsci. Infatti, alle elezioni politiche del maggio 1921 il Psi scese al 24 per cento dei voti e a 123 deputati. I fascisti, in quelle elezioni nelle liste del blocco nazionale con i liberali di Giolitti, ottennero 35 seggi. Era fortemente avvertita l’esigenza di una guida politica diversa da quella che era a capo del Psi. Quest’esigenza non trovò alcuna soluzione all’interno del Psi, alla quale pensava la frazione comunista che alla fine decise di uscire dal Psi e costruire un nuovo partito, il Pci, che sarebbe diventato il primo partito della sinistra in Italia e il più grande partito comunista dell’Occidente. E’ un fatto incontrovertibile che il Pci abbia avuto un ruolo notevole nell’opposizione al fascismo, nella Resistenza contro il nazifascismo, nell’emancipazione delle classi popolari, nella difesa della democrazia repubblicana, nella conquista dei diritti civili e nella crescita della società italiana. Averlo fondato cent’anni fa, si è rivelata una scelta buona nel lungo periodo. Ora che il Pci, dal 1991, non c’è più, se ne avverte la mancanza.
Silvano Privitera
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