In questi giorni sta spopolando una polemica intorno ad uno spot pubblicitario in cui vi è un signore, certo Renatino (non Brunetta, ma penso che quest’ultimo apprezzerebbe il suo omonimo), che si vanta di essere felice di lavorare 365 giorni all’anno. Potremmo anche finire qui l’articolo chiedendo a Renatino una perizia psichiatrica, però è indubbio che se esiste una pubblicità del genere vuol dire che qualcosa non va. E quel qualcosa che non va è, citando il buon vecchio Marx, l’alienazione dell’uomo. Renatino non è un modello ma un dismodello, la distopia di una società in cui non si mette più al centro l’uomo ma il profitto, in cui tutte le politiche del lavoro hanno fallito e l’aspirazione massima è che il lavoro ci renda simili alle bestie (altro che nobilitarci). Dovremmo essere nei tempi in cui possiamo gridare “lavorare meno per lavorare tutti”, in cui vi è bisogno di un salario minimo, di aumenti di ore per il tempo libero (anche grazie all’introduzione delle nuove tecnologie). E invece abbiamo fatto “indietro tutta” tornando quasi allo schiavismo e a celebrarne addirittura lo schiavo che è felice della propria condizione! Qui non siamo al “come è umano lei” di fantozziana memoria (Fantozzi oggi sarebbe il no plus ultra della felicità avendo famiglia, casa di proprietà e posto fisso), qui siamo all’interno di una spirale in cui l’uomo è sempre più animale da soma e la sua dignità è stata svenduta al primo acquirente. Ahi, serva Italia, non lamentarti poi se i giovani scappano. Cosa dovrebbero trovare qui? Uno stage gratis? Anni di studio mal pagati? La precarietà? Fare il Renatino di turno e vivere una vita inutile senza vedere manco una volta il mare? Renatino non è un eroe, è, facendo anche rima, un cretino.
P.s. qualcuno potrebbe dire che in realtà Renatino è una metafora cinematografica che serve a significare una certa cosa, magari come l’occhio della madre, il montaggio analogico e la carrozzella. Ebbene, per noi poco “studiati” di cinema, il Renatino è una “cag… pazzesca” (risparmiatevi i 92 minuti di applausi).
Alain Calò
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