Enna. Si celebra l’esaltazione della Santa Croce presso il Santuario di Papardura nei giorni 13 ed 14 settembre. Le celebrazioni eucaristiche dalle ore 7 alle 12 e di pomeriggio alle 18, giorno 14 alle 18 la Santa Messa che culminerà con la solenne benedizione sul calvario che sovrasta il Santuario con la Reliquia della Spina Santa.
I festeggiamenti iniziano il 30/31 agosto ed il primo settembre con la tradizionale “questua” per le vie della città con muli bardati e la tipica presenza del “ciaramellaro”. Nei primi di settembre, per tre giorni consecutivi, il confezionamento delle “cuddruredde”, 850 chili di farina che saranno distribuite il giorno della festa 13 e 14 a cura dei procuratori della deputazione dei “massari”.
Chiesa del SS. Crocifisso (Papardura)
La chiesa del SS. Crocifisso di Papardura è facilmente raggiungibile imboccando via Libertà, dopo l’incrocio col viale Diaz, ed immettendosi su una stradina lungo la quale sono segnate le stazioni della via Crucis che culmina poi sulla rocca del Calvario. La chiesa fu costruita in muratura su un terrapieno a ponte, sovrastato da una rupe, su cui giganteggia il caratteristico Calvario. Alla chiesa è inglobata la grotta, (dove fu ritrovata, nel 546, un’immagine del Crocifisso, forse fatta dipingere dall’ennese Ascanio Lo Furco), realizzando così un’unità architettonica di mirabile semplicità e armonia ambientale.
Il campanile che sorge accanto alla chiesa è stato anch’esso costruito sul ponte sul quale si aprono delle grotte naturali. L’entrata degli arabi impose il culto di Allah e determinarono l’abbandono della grotta e la perdita dell’immagine del Crocifisso che, ricoperta di terriccio, è stata ritrovata, secondo quando afferma padre Vincenzo Lo Menzo, in seguito al distacco di un frammento di roccia dal pendio della montagna. Considerando l’inaccessibilità di quei luoghi solo un’opera d’ingegneria veramente eccezionale ha reso possibile la costruzione del Santuario. Secondo le cronache dell’epoca, nell’anno 1693, da Leonforte, Assoro e Agira, i rappresentanti delle Municipalità venivano, scalzi e dolenti, ai piedi del Venerato Crocifisso di Papardura per invocare la pioggia nei terribili anni della siccità, che portò la morte e la distruzione nelle contrade ennesi. I contadini, i braccianti, i pastori che abitavano nei feudi, nelle capanne di paglia e di fango o in quelle di legno amavano custodire i segni della loro fede. Nel 564, un certo Ascanio o Angelo Lo Furco o La Furca, d’accordo con gli abitanti delle campagne delle contrade Papardura, Pizzuto, Vaneddi ecc. costituì, dentro una grotta, a ridosso della montagna ennese, con l’apertura a sud-est, un oratorio, e sulla parete di fondo della grotta, sulla liscia parete di viva pietra, fece dipingere una scena raffigurante la Crocifissione così come, fino a quel tempo, era stata tramandata dai sacri racconti.
Il nome di Papardura
Interessanti sono le molteplici interpretazioni date al nome di Papardura. Secondo il Paolotto Padre Lo Menzo – nella sua storia inedita Papardura deriva dalla forma Papa-ardura perché da quella località entrò in città il Papa, dopo aver adorato il Crocifisso. Ma il Paolotto commise un errore perché Enna non era mai stata visitata da un Pontefice. Piuttosto è più attendibile quando scrive Vincenzo Littara, storico di Noto, nelle “Historiae Hennensis”, facendo derivare la voce Papardura dalle acque che nella località sono abbondanti, dicendo che Papardura significa: località di acque perenni e abbondanti. Questa interpretazione è la più attendibile poiché, in verità, la località Papardura è assai ricca di sorgenti; famosa è l’acqua del Crivello, con il grande bevaio di acque potabili e con il lavatoio costruito dal comune per uso e comodità dei cittadini.
Questa spiegazione può trovare un’altra verosimile interpretazione nell’origine persiana della parola “Papar”-dura. Infatti, “papar” è la denominazione di acqua sorgente e “dura” che è sinonimo di roccia. Probabilmente gli Arabi la chiamarono così per indicare la roccia dell’acqua sorgente.
L’interno e l’esterno della chiesa di Papardura
L’esterno della chiesa si presenta semplice ma affascinante, immersa in una natura pittoresca. L’interno si presenta all’occhio del visitatore con decori sfarzosi; questa, infatti, è di stile barocco. Stucchi in gesso policromi, il ricamo in legno del tetto a cassettoni, gli smalti oro e rosso della teca che racchiude la “storica” pietra dipinta che il tempo l’aveva trasformata da ingenua pittura in un interessante graffito primitivo, che restaurato ha purtroppo banalizzato disegno e colori ma nell’insieme conferiscono alla chiesa una mirabile visione. La chiesa ha un’unica navata attorno alla quale sono disposte le statue degli apostoli, persi nell’immutabilità dello spazio e del tempo. Le statue sono a grandezza naturale, poste alle pareti, su mensole decorate. Degne di ammirazione sono quattro splendide tele disposte lungo gli altari laterali. Le tele raffigurano: “La caduta di Cristo” di Benedetto Candrilli, unico pittore identificato, “Cristo alla colonna”, “Cristo nell’orto”, “L’incoronazione di Gesù”; due di essi sono dalle linee meravigliose; mentre gli altri due quadri raffiguranti “Cristo alla colonna” e “Gesù deriso”. Il tetto della Chiesa del Crocifisso, a cassettoni di legno scolpito, opera della fine del secolo scorso, è simile, in piccolo, a quello più celebre del Duomo della città. La Chiesa è ricca di stucchi iniziati nel 1696 da Giuseppe e Giacomo Serpotta e ultimati nel 1699 dal Berna. Nella grotta è sistemata l’abside con l’altare maggiore, sul quale si può ammirare un pregevole paliotto d’argento settecentesco, eseguito da Pietro Donia nel quale a rilievo e a bulino, è raffigurato il “Trionfo della Croce”. Gli altri paliotti degli altari laterali sono in cuoio bulinato finemente decorato, con dipinti gli stessi motivi dei quadri degli altari. Interessante è un tosello con reliquiario, con velluti e argento. In sacrestia vi è un casserizio a intarsi. Il corpo della chiesa è circondato da un caratteristico ponticello.
Sul ponte si aprono grotte naturali, in una delle quali, dal 1969, è collocata una statua del Cristo morto, opera dello scultore Marzilla. Lungo il percorso per giungere alla chiesa, sono da ammirare le tre croci musive poste sulla rupe detta “Rocca del Calvario”, tappa finale di una artistica “Via Crucis”, anche essa a mosaici, che si snoda lungo tutta la strada che porta al santuario di Papardura. Dalla balconata di questo caratteristico eremo si offre allo sguardo uno spettacolare paesaggio: l’antichissimo gruppo di lavatoi costruiti dal Comune a vantaggio delle donne ennese che lì, per intere generazioni, hanno lavato i loro panni. Attualmente l’amministrazione della Chiesa è affidata ad una deputazione di Massari che ogni biennio elegge il capo o depositario. La Deputazione ha un preciso diritto di patronato, regolato da un atto speciale di costituzione. I Massari devono versare una quota annuale per i bisogni della Chiesa e devono provvedere a raccogliere gli altri mezzi necessari per il mantenimento del Culto al Crocifisso. La chiesa del SS. Crocifisso vive un momento di vero splendore nel mese di agosto quando la curiosità dei turisti è attirata da giumenche e muli in giro per le strade; gli animali sono riccamente bardati con antichi finimenti di panno ricamati a colori vivaci, come i tradizionali carretti siciliani, guidati dal suono della cornamusa e accompagnate da procuratori che raccolgono i loro donativi e quelli degli altri devoti. Attualmente la festa e la fiera di merci richiamano grandi folle di fedeli.
Gli stucchi del Santuario di Papardura
Nel 1696, completate le opere murarie, rifinita l’abside inglobante la grotta, portata a termine la volta a botte (oggi nascosta da un pregevole soffitto a cassettoni), si pensa alla decorazione delle pareti, dell’altare maggiore, delle cappelle, e delle porte. Così il 27 luglio di quell’anno, con atto stilato dal notaio Salamone (da qui si da la notizia per la prima volta), uno dei decoratori più in vista del momento, Giuseppe Serpotta (1653-1719) “dalla felice città di Palermo e presente in questo luogo, si obbliga a stucchiare di stucco di rilievo tutta la chiesa del Santissimo Crocifisso magistralmente”. Il prezzo pattuito è di 220 onze, e l’impiego immediato per Serpotta è di completare entro l’anno almeno due cappelle. L’artista chiede di essere esonerato dal continuare l’opera nel periodo invernale e di avere un preavviso di almeno sei mesi prima della data d’inizio del suo proseguimento: segno evidente di necessità di portare a termine impegni assunti altrove in precedenza. I disegni di questi stucchi compreso un altare furono eseguiti da Giuseppe e Giacomo Serpotta, considerati i migliori artisti dell’arte dello stucco del “600. L’opera però fu completata dal Berna che realizzò con gradevole effetto tutto il lavoro che oggi ammiriamo.
Il Crocifisso della grotta: tra storia e leggenda
Sono molti i racconti e le leggende legate alla chiesa di Papardura tra questi ricordiamo quello di un religioso, si tratta di un monaco di San Basilio che aveva la sua dimora nel convento in località chiamata, ancora oggi, Portella dei Monaci. Secondo il racconto del religioso, spesso di notte, il pendìo della rupe di Papardura, era illuminato da un flebile bagliore. Paolo Vetri nel volume “Castrogiovanni dagli Svevi all’ultimo dei Borboni di Napoli (Adolfo Pansini, Piazza Armerina, 1886), narra che un sacerdote una notte sognò una solenne processione partire dal Duomo. La processione, costituita dal popolo, sacerdoti e gentiluomini, giunta alla Porta di Papardura, si fermò in preghiera dinanzi alla parete rocciosa. Il sogno sconvolse il pio sacerdote, che ritenne opportuno confidarsi con frate Paolotto, ma rimase anch’egli perplesso su tanto mistero. Più tardi giunsero altre testimonianze del genere. Un’altra donna disse di aver sognato un cieco riacquistare la vista e un muto la parola, proprio a ridosso di quella bianca parete rupestre. Nel 1659 una monaca “terziaria degli zoccolanti” in sogno, aveva visto il Crocifisso, che a lei aveva chiaramente detto: “Nella grotta di occidente a metà della rocca di Papardura, che vi si scende per una scala intagliata, là si trova la mia immagine quando fui Crocifisso, e giace abbandonata ricoperta di terriccio. Fai accomodare la vecchia lampada che ivi si trova, manifesta a tutti che si faranno da me molti miracoli”. Ciò, come dice il Vetri, fu confermato da un’altra donna, una lavandaia, Angela Lo Guzzo, donna di buoni costumi e timorata di Dio. Finalmente nel 1670, si scavò nel luogo che era stato indicato; durante i lavori di scavo fu trovata la grotta con la prodigiosa immagine. Si trattava di un Crocifisso abbandonato dipinto su una lastra di pietra, forse un’immagine venerata in segreto dai cristiani durante la dominazione musulmana, o una di quelle nascoste dai fedeli durante la persecuzione iconoclastica di Leone III l’Isaurico, e poi rinvenute fortunosamente dopo secoli. La grotta divenne oggetto di culto e venerazione, accorsero in molti a visitarla, a pregare dinanzi al dipinto e la fama miracolosa del Crocifisso, in breve, si dilatò per le terre del
regno di Sua Maestà. Nel 1659, si costruì la Chiesa, la cui abside è costituita dalla grotta antica e sull’altare maggiore, in un ornato riquadro a intagli dorati e vetri, fu incorniciata la pregevole Crocifissione che era dipinta sul muro della Caverna. Per questi lavori, il popolo contribuì con slancio e in tutto si spesero cinque mila scudi.
Il Santuario del SS. Crocifisso di Papardura tra feste e tradizioni popolari
La festa prima, veniva fatta due volte l’anno, il 3 maggio, a ricordo del ritrovamento della santissima croce e il 14 settembre, giorno dedicato all’Esaltazione della Croce. Fu costruito, attorno alla Chiesa un grande loggiato dove i pellegrini trovarono asilo e spesse volte cibo e ristoro, oltre che la venerazione verso il Crocifisso, dal titolo di “SS. Crocifisso abbandonato di Papardura”. La festa aveva inizio otto giorni prima e ogni mattina all’aurora si sparavano 600 mortaretti. Due giorni prima della festa avevano luogo le famose corse degli asini, dei muli e dei cavalli, sul percorso che andava dalla Chiesa di S. Eligio a quella della Madonna dell’udienza. La vigilia si correva, sullo stesso percorso, il palio, consistente in uno stendardo di seta, con nel centro dipinta l’effige del Crocifisso. Nella tarda sera si sparavano i fuochi artificiali sulla collinetta attorno alla Torre di Federico. Nell’ora dei Vespri, nel giorno della festa, aveva luogo la grande processione della Croce, cui partecipavano tutte le Congreghe e una grande folla con le torce accese. La processione, dopo aver raggiunto la Cappella della Madonna di Montesalvo, si recava nel Santuario di Papardura, ove si scioglieva dopo avere ricevuto la benedizione con la reliquia della Santa Croce. Le vecchie cronache ricordano che nel 1700 era così enorme la folla dei fedeli, convenuta nella Chiesa, che 25 sacerdoti, all’aperto, confessavano i devoti venuti da ogni contrada del Regno. Per la festa del 1705 due pescatori, venuti da Mazara del Vallo, recarono una torcia di cera del peso di 103 kg. Erano a piedi scalzi e portarono la grande candela, erano appesi alle pareti del tempio. Si usava, allora, far riprodurre in cera la parte del corpo che per grazia del Crocifisso era stata guarita; così si vedevano, in cera, prodotti da artigiani specialisti chiamati “bamminiddara” pressoché tutti gli organi del corpo umano; questa usanza fu poi abolita con un saggio divieto. Ancora oggi si vedono i caratteristici episodi dei miracoli dipinti su tavolette, anch’ esse ex voto. Sono delle tavole di vario formato e dimensione, ove sono dipinti, con un senso assai ingenuo dell’arte pittorica, gli episodi che hanno condotto al miracolo. Su ogni tavoletta è il nome e cognome del miracolato, la natura del miracolo e la data in cui si manifestò. Sono belle curiosità che potrebbero interessare tutta una storia di fede, di riconoscenza e di folklore. Nella terza domenica di maggio, partendo dal Duomo si svolgeva, fino a Papardura, una grande processione penitenziale per il patrocinio del Crocifisso sulla città, fede di popolo. Nell’anno 1741 si ebbe una disastrosa invasione di cavallette che, comparve nel mese di giugno, funestarono i feudi di Geracello, di Ceraci, del Piano del Tordo, Bubutello e Carrangiara. Anche in quella occasione, gli ennesi, ricorsero alla misericordia del Crocifisso per far cessare il flagello, che si fermò appunto a Carrangiara. Nello stesso anno, per la festa di settembre cadde la grandine, con chicchi del peso di sette once, che spaccarono le tegole e che causarono molto spavento e tanti danni. In un atto del mastro notaro don Francesco Maria Planes si parla anche di una terribile peste che non penetrò in Enna per la grazia del Crocifisso. Nello stesso anno, come si leggeva in un atto contenuto in un archivio privato, adesso disperso, stipulato dal notaro Ciraulo, una tremenda carestia funestò la Sicilia. La siccità ne fu l’origine. Dal Natale del 1742, al 30 novembre 1743, non si ebbe la pioggia e nemmeno i venti umidi. Le campagne arse dai geli e dal caldo e i popoli assetati soffrirono e languirono amaramente. Seguì un altro crudo inverno con venti e geli e poscia, dopo scarsi raccolti, si ebbero due anni di nera carestia. In quella occasione nel 1746 si svolse una processione penitenziale, così descritta: “Erano tutti a piedi scalzi e sembravano usciti dalle sepolture, i capelli scarmigliati, la corda al collo, piangevano e pregavano”. Giunti i penitenti nella Chiesa di Papardura, il parroco di S. Cataldo, cappellano del Santuario, ebbe parole adatte alla circostanza e annunzio che i procuratori della Chiesa, in omaggio a Gesù Crocifisso, ogni anno, per la festa avrebbero distribuito delle piccole “collorelle” biscottate, benedette, come fecero in quell’istante per onorare il SS. Crocifisso, con la speranza che avrebbe dato raccolto di grano abbondante.
Le “collorelle” o “cuddruredde”, propiziataci per far finire la carestia, furono divise a ruba. Quell’anno la terra diede tanta abbondanza di grano che non bastarono i granai a contenerlo e ne fu anche conservato negli oratori delle Confraternite che erano colmi a disposizione di tutti. Le “collorelle”, sancirono una devozione che da allora viene praticata nella festa del Crocifisso, come ringraziamento per la fine della terribile carestia. Un giorno dell’anno 1699, ad un massaro, cadde una vitella da un sentiero in un burrone, nella caduta, la vitella, ebbe spezzati gli ossi del collo. Il massaro invocò la grazia del Crocifisso e volle che il cappellano della Chiesa, che era il parroco di S. Cataldo, andasse nel burrone, sotto la rupe di Papardura, per benedire la giovenca agevolando così il compimento della grazia. Il parroco andò e dopo la benedizione la giovenca, da sola, si alzò e riprese la sua strada come se nulla fosse stato. Per la festa, il massaro, donò alla Chiesa una vitella per essere cucinata e mangiata dai procuratori e dai pellegrini più poveri, con l’obbligo di inviare al Parroco di S. Cataldo, cappellano della Chiesa di Papardura (Oggi di pertinenza della chiesa Maria Mater Ecclesiae), la testa e il collo dell’animale sino all’attaccatura con il corpo. Questa usanza non fu più praticata negli anni seguenti.
Enna. 30 mila “cuddruredde” per le celebrazioni della festa di Papardura
di Massimo Greco
I Deputati Massari di Papardura anche quest’anno si preparano a celebrare, per i prossimi 13 e 14 settembre, l’esaltazione della Santa Croce presso il Santuario di Papardura. Per l’occasione sono già state confezionate ben 30 mila “cuddruredde” che saranno distribuite a pellegrini e visitatori. Le “cuddruredde” biscotatte, benedette per l’occasione, sono propiziatrici della fine delle carestìe e rappresentano il simbolo di una tradizione che è riuscita a sopravvivere anche ai più invasivi Tik Tok e alle nuove dinamiche livellatrici imposte dalla velocità con cui circolano le informazioni. I Deputati Massari, consapevoli di vivere il un mondo sempre più globalizzato, non si limitano a mantenere vivo un tratto identitario della comunità ennese ma ambiscono a farlo conoscere il più possibile, facendo tesoro del suggerimento di Tolstoj: “Descrivi il tuo villaggio e sarai universale”. Sociologia non convenzionale perché lo iato tra l’osso e la polpa non è più solo fatto di differenze territoriali e di numeri, ma di racconti di storie di vite che rendono visibili gli invisibili. Per vedere e capire occorre immergersi nell’empatìa dei Deputati Massari, questi nuovi educatori che la Scuola farebbe bene ad affiancare nella propria azione pedagogica per scongiurare la svalutazione globale delle vite non portatrici di fattori identitari e il loro annientamento qualitativo. Sono queste le nuove sfide, ma molto dipenderà dal dosaggio di “cultura” nella mela avvelenata del “turbo capitalismo” e dei tanti che nel margine e con il margine trasformeranno il silenzio del superfluo in “cultura” per cambiare. E’ cosa buona e giusta tentare di recuperare in “cultura” il tempo che la città di Enna ha perso ma la strada è lunga…molto lunga!
Foto la preparazione delle “cuddruredde” anno 2022
Galleria forografica – anno 2016
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