La donna del veleno o il veleno della donna nel seno della vita e della storia dalla Sicilia al Nord Italia si consuma sulla scena per universalizzarsi nei rapporti umani, nell’amore coniugale o nell’amore segreto, nelle vendette trasversali e nei giochi di bambine. Così l’attrice Silvia Martorana ricostruisce con il suo spettacolo, un itinerario nei meandri della psiche femminile, del suo erotismo, della sua bellezza ora fedifraga, ora celeste, ora ancora maledetta.
Un’attrice nella scarnificazione della scena e nell’atmosfera evanescente della musica dal vivo e del buio delle vesti e delle parole.
La Martorana usa la voce per dare il via a racconti descrittivi, ricostruiti in piccoli particolari che nella mente dello spettatore divengono immagini concrete, vive nella memoria e nelle conseguenze del presente.
Una sedia, un tavolo, caramelle al veleno e il canto sospeso tra la suspance e la paura delle azioni velenose. Alla base un fiorente substrato letterario: da i veleni di Palermo di Rosario La Duca a La vecchia dell’aceto di giovanna Fiume, da Lucrezia Borgia di Maria Bellonci a I Borgia di Alexandre Dumas, dalla Lucrezia Borgia di Victor Hugo a L’acqua tofana di Salomone Marino, da L’avvelenatrice di Vincenzo Linares ai Veleni intrighi e delitti nei secoli di Francesco Mari ed Elisabetta Bertol e molti altri.
Cos’è il veleno in fondo? “Un sostantivo maschile dal latino venenum. Sostanza naturale o artificiale che penetrata nell’organismo produce effetti gravissimi anche letali: il veleno della vipera”.
Inizia così lo spettacolo spaziando poi nei significati estesi e figurati di una sostanza che, se da un lato è generosa di morte, dall’altro decreta la libertà e la vita di un altro individuo, autore del delitto e beneficiario dei suoi effetti. In equilibrio fra il male ed il bene il veleno, nel lavoro dell’autrice è una soluzione plausibile, immediata, quasi l’unica possibile per rinascere, come una sorta di espiazione dei peccati in vita, come una “taranta” che nel suo morso riversa i dolori di una vita, la frustrazione dei divieti e la povertà di mezzi e d’animo.
Con il suo stile fresco, la leggerezza e in alcuni momenti con il distacco di un “cuntastorie” d’altri tempi al di là di ogni tradizione, l’attrice dà prova di un’abilità che coinvolge il corpo e la voce in un unicum efficace, funzionale ed organico. Lo spettacolo si frantuma in quadri indipendenti ma correlati dalla passione, dalla necessità dei cibi e delle bevande come veicolo del veleno, dallo scambio di confidenze, da paesaggi di città colte nella notte dei tempi e nella difficoltà di sbarcare il lunario. La drammaturgia, dinamica e accattivante, è un tessuto fertile per cucire insieme ritratti di donne madri, figlie, amanti, spesso capri espiatori dei costumi e della morale del tempo. Docili e aggressive, al contempo, le sfaccettate anime femminili si fondono nelle sembianze dell’attrice che le accoglie, ora come se le appartenessero, ora come se le studiasse, ora come fossero altro da lei. Non c’è spreco, né ridondanza nello spettacolo ma l’essenzialità del racconto con il suo ritmo e i suoi colori; poche azioni e direzioni precise.
(Claudia Brunetto)
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