Abolizione delle Province ovvero della miopia e della inadeguatezza di una classe politico-governativa
Sicché quasi dire si può dello Imperadore, volendo il suo ufficio figurare con una immagine, che elli sia il cavalcatore della umana volontà, lo qual cavallo come vada sanza il cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente nella misera Italia che sanza mezzo alcuno alla sua governazione è rimasa.
(Convivio, Dante Alighieri)
All’inizio della storia sembrava, il Governatore, un condottiero rivoluzionario quando troneggiava in tutte le trasmissioni televisive annunciando la sua non riforma delle Province. Ovunque sbandierava come un suo successo personale l’abolizione delle Province e l’istituzione dei Liberi Consorzi comunali. Aveva successo perché innalzava un feticcio offrendolo al pubblico ludibrio fatto spesso di ascoltatori distratti e disinformati ma affamati e bramosi di distruggere quel politicume locale che, a dire il vero, si era impegnato affinchè le istituzioni locali perdessero quella connotazione di essere la vera piattaforma partecipativa nel senso del buon governo. Non era solo ma circondato da novanta “sbandati” che assolutamente privi di qualsiasi visione prospettica della realtà facevano a gara per difendere il loro forsennato “localismo” che strideva, già nei termini, con la questione di un vero ridisegno dell’area vasta provinciale e metropolitana. Ed ecco che il vero problema, per una classe politico-governativa più preoccupata a difendere il vitalizio che a risolvere i problemi di questa povera terra siciliana resa più fragile dal mancato e consapevole esercizio di critica e di indignazione da parte dei siciliani, diventava quello della difesa ad oltranza del mantenimento di piccoli privilegi di esistenza territoriale invece di preoccuparsi del superamento delle proprie ristrettezze territoriali troppo spesso accompagnate da analoghe ristrettezze di visioni politiche autenticamente moderne e capaci di dare un messaggio di riscatto e di speranza a tutti i siciliani, ma soprattutto a quei giovani siciliani che vedono, senza torto alcuno, la Sicilia come il deserto politico, culturale, economico, lavorativo. Ovviamente un simile comportamento della classe politico-governativa siciliana non vuole invertire alcuna tendenza anzi se ne vuole accentuare la decadenza ad ogni livello della vita sociale e politica.
Il problema dell’abolizione delle Province, nella terra di Pirandello e di Tomasi di Lampedusa, diventava così solamente uno sterile problema giuridico avviluppato dentro discorsi il più delle volte inutili poiché intrisi di cavilli ed eccezioni funzionali spesso al mantenimento di uno stato paludoso delle cose con il complice richiamo a quella specialità statutaria regionale che ha consentito – con privilegi infiniti – il default non solo economico ma anche politico e morale della Sicilia.
Ma si sa, di fronte alle volontà dei condottieri regionali e nazionali, sono state oscurate, persino, le notizie di politica estera non funzionali a tale gioco di basso profilo istituzionale. Di fatti, anche le recenti elezioni francesi dipartimentali (le nostre Province) sono passate in secondo piano perché costringevano a far pensare gli italiani sulla inutilità delle sforbiciate istituzionali che il giovanetto fiorentino vorrebbe praticare come un gioco da asilo infantile. Infatti, per far passare la riforma costituzionale uguale a quella della P2 gelliana che, pensate un pò, si chiamava (Piano di rinascita democratica) e che oggi invece, prefigura il Partito della nazione con l’abolizione delle province, il monocameralismo, il presidenzialismo, la riforma della scuola, etc. , tutti devono piegarsi alle volontà del cortigiano fiorentino privo però di mecenatismo.
In mezzo a questo scenario politico alquanto logoro e deteriorato emerge la più schifosa riforma delle province siciliane. Quant’è lontano il tempo in cui l’Assemblea Regionale Siciliana sotto la spinta del rinnovato quadro politico di fine anni settanta produceva le leggi di decentramento amministrativo che precedute da approfonditi studi ed analisi da parte dei più insigni studiosi e giuristi del tempo venivano prese ad esempio dal resto delle regioni italiane!
Oggi la situazione è ben diversa. Esistono solamente povere idee maturate di singoli politici al di fuori di qualsiasi logica di responsabilità istituzionale.
Che si poteva pretendere di più? I molti che si sono sentiti defraudati delle specialità e specificità dello Statuto siciliano hanno solamente, come sono abituati a fare, gridato all’arroganza dello Stato che voleva prevaricare sulle “privative” regionali senza dir niente delle inefficienze parlamentari e di una produzione legislativa siciliana sempre più confusa, ridondante, clientelare e contingente, preoccupata com’è di mantenere la perpetuazione dei vari baronati locali nelle realtà urbane isolane fatte ancora oggi di rapporti sociali gerarchici, autoritari e, quasi sempre, autoreferenziali, a tutto danno di connotazioni di tipo partecipativo e di cittadinanza attiva: il prevalere della rappresentazione dell’egoistico io sul meno appagante, in termini di interessi personali, del noi.
Si è persa così, un’altra grande occasione di vera riforma dei livelli istituzionali regionali.
Abolite le province regionali siciliane ci si è limitati solamente a mutarne il nome in liberi consorzi comunali che per la loro individuata esigua base dimensionale sono già condannati – prima di nascere – a divenire realtà asfittiche prive di reale capacità di iniziativa e di governo per il rilancio dei loro territori.
Poteva essere l’opportunità per prefigurare un ridisegno territoriale regionale complessivo. Ma così non si è proceduto. In maniera astratta, ascientifica e solamente ideologica e di opportunismo politico si è inventata una dimensione ottimale per il libero consorzio di comuni alquanto insufficiente a garantire quelle economie di scala necessarie a dare efficienza e capacità di programmazione alle più elementari funzioni ed ai servizi essenziali.
Occorreva partire dallo studio dei luoghi o topologia che è una branca della matematica che nelle scienze territoriali comprende concetti fondamentali come quelli come quelli di convergenza, limite, continuità, connessione, compattezza. In questa maniera si sarebbero prefigurate reti territoriali che avrebbero avuto sicuramente forme più complesse e difficili ma sicuramente più efficaci nell’economia dei luoghi e nella gestione funzionale. Ma la Sicilia, si sa, oltre ad avere un digital divide che paghiamo nei termini di conoscenza ed impoverimento di impegno civico ha anche un institutional divide che ha come riflesso uno scarso impegno delle istituzioni regionali e locali in politiche realmente innovative.
Ma con un basso livello qualitativo della produzione legislativa siciliana (sempre più oggetto dei rilievi del Commissario dello Stato oggi purtroppo, messo da parte, dalla Corte Costituzionale) cosa c’era e c’è da aspettarsi?
Cosicchè emerge sempre una classe politico-governativa troppo legata a piccoli calcoli politici ancorati alle contingenze della vita politica regionale o locale che hanno solamente il sapore delle ripicche e non quello di prospettive per il futuro della società siciliana. Ma cosa avrà presto di fronte una simile classe politica? In questo caso, o una schiera di lavoratori delle province, disponibile ancora a credere agli ammiccamenti pre-elettorali dei deputati “del territorio” o un esercito di nuovo precariato acritico ed informe di dipendenti pubblici ancora disponibile al richiamo opportunistico ed elettoralistico in grado di segnare le fortune di qualche politico dell’ultima ora? Oppure, come sarebbe auspicabile una classe di impiegati pubblici non di utili serventi ma fortemente critica e consapevole, creativa ed innovativa che inverta la tendenza offrendo ai siciliani non una burocrazia utile a se stessa ma in grado di soddisfare bisogni, esigenze e servizi al pari di quello che avviene nelle regioni meglio organizzate del paese.
Per tutti questi motivi, dimensioni e funzioni dei liberi consorzi, così come vengono via via sconfessati dagli stessi proponenti, non hanno l’adeguatezza richiesta per concorrere a quelle politiche di sviluppo in grado di far parlare della Sicilia non come Regione del prossimo default economico ma come Regione capace di affrontare in maniera nuova ed originale la riforma delle proprie autonomie locali in un quadro di coerenze nazionale ed europeo.
Occorre conoscere per condividere ed essere sostenitori di chi auspica una nuova geografia istituzionale dei poteri locali (da quello regionale a quello comunale) superando gli attuali modelli obsoleti ed accelleratori di corruttele per avere delle Macroregioni al posto delle attuali regioni, delle Città ed aree metropolitane al posto degli attuali Comuni e Province.
Immaginiamo, ad esempio, cosa sarebbe una macro-regione del Sud “collegata in modo naturale con le economie emergenti del Mediterraneo (dei paesi arabi della Costa nord africana, -Maghreb e Mashrek-, dei Balcani, verso il Medio-oriente…) possa essere l’elemento virtuoso per un’autonomo avvio di scambi culturali, economici, di sviluppo nuovo (sull’energia, l’agroindustria, il turismo…) che possano finalmente far decollare la MACROREGIONE DEL SUD verso nuovi mercati e opportunità di benessere”.
Un soggetto politico-istituzionale forte capace di porsi come elemento concorrenziale con l’espansione cinese in alcune aree del Nord Africa.
E’ la situazione di crisi in cui viviamo che richiede nuovi modelli aggregativi a cui devono corrispondere nuovi modelli istituzionali e, soprattutto, nuove aggregazioni territoriali in grado di superare il medievalismo campanilistico artatamente sbandierato da chi non vuole un cambiamento delle cose per mantenere piccoli privilegi e poteri locali. Potrebbero farsi tanti nomi sui soggetti che gridano alla difesa del campanile ma preferiamo muoverci su considerazioni ben diverse auspicando che non abbiano più ad esistere insieme a costoro anche quell’esercito di creduloni più o meno interessati – collocati in buon ordine – a difesa di questa o quella finta specificità territoriale da preservare.
Ecco perché si è ancora in tempo a rimediare a quel pasticcio giuridico che emerge dai vari disegni di legge sulla riforma dei liberi consorzi e le aree metropolitane siciliane per il superamento di un modello disgregativo e la proposizione di un forte modello aggregativo di nuove solidarietà e cooperazione tra territori che disegni nuove aggregazioni comunali e più ampie realtà territoriali consortili.
Qualcuno ha fatto mai leggere ed aiutare a comprendere a questa classe politico-governativa tutti i documenti scientifici di riordino territoriale prodotti da enti, associazioni e studiosi?
Partendo dai documenti di grande valore scientifico prodotti dalla Società Geografica Italiana e dagli studi di comparazione legislativa e congruità normativa prodotti dagli Uffici studi di Camera e Senato (poiché di quelli legislativi dell’ARS s e ne sconosce l’esistenza) i nostri deputati regionali potrebbero riceverne utili suggerimenti per arrivare ad una riforma dei Liberi Consorzi di Comuni e Città metropolitane in grado di dare efficienza politica e gestionale ai vari poteri locali e per avere servizi efficienti, rapidi ed economicamente sostenibili di fronte ai continui mutamenti della società. Solo così facendo possono delinearsi funzioni efficaci e non ripetitive tra vari livelli istituzionali guadagnando economicità gestionale e celerità tecnico-amministrativa in cui, invece di parlare terroristicamente di eccedenze di personale, si potrebbe meglio parlare di riorganizzazione lavorativa e funzionale del personale con il mantenimento degli stessi livelli occupazionali. Ma una domanda è utile porsi e far porre, almeno per riflettere:
“Perché qui ed ora?”
Giuseppe C. Vitale – Urbanista