domenica , Dicembre 22 2024

Enna. Così ci si difendeva dal freddo… una volta

Enna. Nei ricordi di chi ha una certa età, gli inverni rigidi ad Enna erano ricorrenti, con nevicate così abbondanti che la mattina era quasi impossibile uscire da casa per andare a lavorare perché la neve, diventata ghiaccio durante la notte, aveva ‘murato’ la porta d’ingresso. Il Comune provvedeva sin dalle prime ore del mattino ad organizzare squadre di spalatori di neve reclutate tra i tanti braccianti senza lavoro, che con pale e carriole permettevano ai pedoni di camminare per le strade del centro. In quelle di periferia erano gli abitanti dei quartieri a spalare davanti la propria casa fino a quella del vicino, un passa parola…di ‘mutua buona volontà’. Di spargere sale neppure a parlarne… esisteva solo il prezioso sale da cucina. Così il manto bianco rimaneva immacolato ovunque per settimane intere. La nevicata più abbondante, a mia memoria, si ebbe nell’inverno del 1956 con quasi un metro di neve. Ma gli anziani raccontavano di altre eccezionali nevicate nella nostra Enna, che, ricordiamocelo, è a 956 metri sul livello del mare. Non esisteva la Protezione Civile e le scuole rimanevano aperte. Adesso è tutt’altra cosa. Con le unità di crisi ‘emergenza neve’ e l’organizzazione di riunioni – dove magari si prendono decisione alle 9 di sera per il giorno seguente e i sindaci corrono in fretta a firmare le varie ordinanze – si allertano volontari e mezzi spargisale in tempo reale. In quel tempo i ragazzi andavano a scuola rigorosamente a piedi e il più delle volte trovavano le aule al freddo per il mancato approvvigionamento di carbon-fossile che alimentava le caldaie esistenti solo al Santa Chiara, al Liceo e al De Amicis, mentre nelle ‘aule sparse’ ci si arrangiava con le stufe a legna. Adesso i ragazzi non vanno a scuola perché la viabilità è ridotta e si può circolare solo con catene o pneumatici da neve. Anche nelle case, al rientro da scuola, si trovavano ambienti freddi. Nel passato sia nelle case di famiglie modeste sia in quelle benestanti, si trovavano stufe di terracotta (nella foto un esemplare) o di ghisa (rare quelle di ceramica) che emanavano calore. Ma in maggioranza erano gli scaldini e le “conche” di varie misure a riscaldare le nostre dimore, accesi di prima mattina ‘ccù gginisi’ e la carbonella. Anche il carbone faceva la sua parte, alimentando le ‘fornacelle’ della cucina economica che contribuiva a dare tepore agli ambienti. La sera ci si riuniva nella stanza grande della casa dove la ‘conca’, sistemata su un supporto rotondo di legno che fungeva da pedana, riscaldava i grandi e i piccoli sistemati attorno. Quel brillante fuoco acceso diventava il punto di raccolta della famiglia: si discuteva di tutto, si tiravano i conti della giornata, si progettava il da fare per il giorno seguente. Il padre rimproverava i figli per i voti bassi a scuola e la madre ammoniva le figlie a non fare le ‘civette’. E i nonni…I nonni tenevano desta l’attenzione dei ragazzi con i “cunti” (favole, tiritere, storielle di tempi passati, modi di dire, indovinelli…). A sera le donne si appartavano in un angolo della casa per la recita del rosario, al suono delle campane della vicina chiesa. Sopra la conca si metteva un cerchione a forma di cupola, chiamato in dialetto ‘u grivutulu’ che serviva a proteggersi dalla brace e anche ad asciugare i panni. L’unico inconveniente del braciere e dello scaldino riguardava solo le ragazze, che se stavano troppo vicine al fuoco, andavano incontro all’arrossamento delle gambe, in modo visibile e persistente per più giorni, causando in loro disagio e imbarazzo.

Salvatore Presti



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