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Enna. Il venditore di scope

”U scuparu”  era un grande camminatore.  Arrivava nei paesi con una cavalcatura (qualcuno con un asino qualche altro con un mulo) o con una bicicletta, dopo avere percorso chilometri di strada in terra battuta. Stanco, impolverato, con dignità, lasciava l’asinello nel fondaco a «ristorarsi» con paglia e fieno, si caricava in spalla il mazzo di scope e ricorreva  strade, vicoli e viuzze gridando «ma che beddi scupi ca haju». Così lo ricordano i nostri anziani seduti a predere il sole a Lombardia; o quegli altri nella piazza principale di Nicosia; quelli di Valguarnera, di Pietraperzia, di Regalbuto.
Nel 1940, Enna era capoluogo di provincia da 14 anni. Tre anni prima Mussolini aveva annunciato una serie di opere da un balcone di palazzo Militello. L’antico borgo che si era lasciato alle spalle Wolfgang Goethe alla fine del Settecento stava cambiando volto. C’erano cantieri in tutta la città ed in provincia. Nelle campagne si costruivano le case coloniche per i contadini. Sorgeva Borgo Cascino  vicino Capodarso.  S’inauguravano i palazzi della Banca d’Italia, del Governo e delle Corporazioni. Un intervento isolato – scriverà 25 anni dopo su «La Stampa»  Paolo Monelli- questo della piazza del Governo che lasciava intatto il tessuto urbano antico, devastato poi a partire dagli anni ’60.
Resistevano le tradizioni. Le fiere, le feste, i mercati, gli artigiani, la vita quotidiana di un territorio  essenzialmente agricolo.   Il venditore di scope andava di pari passo col venditore di «cufini», di ceste costruite pazientemente con canne tagliate  e polloni di olivo o di salice. Servivano per  contenere fichi d’india, mele cotogne, pomodori ed altri prodotti della campagna portati a casa dai contadini.
 «U scuparo»   veniva spesso dissetato dalle donne dei quartieri che approfittavano per conversare e scegliere le scope più morbide o più dure. Fino alla fine degli anni Cinquanta le scope venivano confezionate a mano  con  la cosidetta «Palma di San Pietro» – racconta l’architetto  Paolo Sillitto -. Si tratta  di una pianta mediterranea spontanea che cresce nelle zone meridionali della Sicilia, sulle coste. Ma la «Chamerops Humilis» (il nome dato da Linneo) è rigogliosa  sulle alture popolate da conigli e ricche di vegetazione autocona. Di buona qualità quella  proveniente da Mazzarino.
Sulle scope sia il Pitrè sia il Salomone Marino hanno raccolto una vasta aneddotica. Le case erano per la maggior parte umili ma pulite. Le casalinghe-contadine seguivano i riti di superstizione legati alla scopa con il manico. Intanto non si poteva «’ncignari» (inaugurare) una scopa nuova nel mese di agosto. Bisognava fare attenzione a non passarla sui piedi di una persona «perchè portava male», non si poteva usare la scopa di pomeriggio ma solo di mattina.
Mettere la scopa di traverso dietro la porta significava sbarrare il passo al malocchio; anche  appoggiarla fuori dalla porta allontanava influenze sgradite di persone conosciute.
La casa, allora, ospitava di solito un asino oppure un mulo. Alla scopa quindi veniva associata una ramazza di erica e rametti legati stretti simile a quella che  usavano gli spazzini allora dipendenti dai Comuni.
«La casa pulita era viva e difesa – ha spiegato Sillitto – mentre quella sporca dimostrava abbandono e possibilità di  invasione di ”spiriti”.
Ma spesso una buona scopa serviva alle donne per ammorbidire i mariti ubriaconi e per inseguire i fastidiosissimi topi che cercavano olio, formaggio e derrate nelle fresche dispense situate in grotte sotto le case. Malgrado i gatti e le numerose trappole disseminate accanto al ben di Dio.

Antonio Giaimo
foto repertorio

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