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Enna. Il forno a legna

Enna. Tra l’Immacolata e S.Lucia, all’approssimarsi della festività del Santo Natale, nelle nostre vecchie case si dava inizio a “riti” le cui origini risalgono a tempi lontanissimi: l’allestimento del Presepe e la preparazione dei vucciddrata (buccellati), il dolce natalizio ennese per eccellenza. Il primo fa parte ancora della nostra tradizione, ma viene “cunzatu” oramai non in tutte le famiglie dato l’avvento del nordico abete natalizio; il secondo è sempre presente nelle nostre tavole, non più preparato in casa nel vecchio forno a legna, salvo rare eccezioni, ma nei panifici e nelle pasticcerie, dove si può acquistare fin oltre l’Epifania.
Quando s’accendeva il forno, tutta la famiglia si riuniva attorno ad esso, compresi vecchi e bambini. La preparazione dei vucciddrata impegnava tutti, dai più grandi ai più piccoli. Gli ingredienti dovevano essere manipolati con abilità: la “pasta” veniva preparata secondo una precisa ricetta tramandata da madre in figlia e ù rriminatu, di solito fatto con fichi secchi, mandorle, uva passa e cannella, doveva essere perfettamente dosato per ottenere quel particolare gusto. Con i ritagli di pasta si confezionavano, con le formelle, croccanti biscotti. Tra parenti e vicini di casa era d’uso scambiarsi questi tradizionali dolci.
Molto curata era la preparazione del forno. Il “fochista” o la “fochista” doveva essere, pertanto, la persona più esperta in famiglia. In quell’occasione s’infornava di tutto: mandorle e noccioline sgusciate, castagne, fave, biscotti e pan di spagna ma soprattutto “guastiddruzza” che, imbottite ben calde con olio, sale, pepe, pomodori secchi e formaggio pecorino, costituiva il pasto principale del giorno. Il vino, a tavola, era quello novello della propria vigna o acquistato in uno dei tanti vinalora (rivenditori di vino) sparsi per la città.
Il forno a legna nelle case di quei tempi era un accessorio indispensabile, mentre oggi, alle volte, viene inserito nelle tavernette delle ville più per un fatto ornamentale che per utilità.
Tutte le settimane, di solito il sabato, le donne facìvanu u pani; mai di venerdì, giorno di astinenza, che ricorda la passione di Cristo, in cui le donne, le nostre nonne, nemmeno si pettinavano, come atto di umiltà. Di buon mattino, dopo essere andate alla prima messa, preparavano la pasta di pane “mpastata nà maiddra” con farina, acqua (tiepida d’inverno, fredda d’estate), sale e lievito naturale (“u criscenti”), la cui lievitazione doveva essere al punto giusto, contemporaneamente veniva riscaldato il forno e portato alla giusta temperatura. Il combustibile ideale era: la legna e le ramaglie d’ulivo e di mandorlo, qualche pugno di scòrcia di mìnnuli o più semplicemente la paglia d’arditura. Alla fine nà furcunata di paglia, la cosiddetta “vampata”, metteva in condizione il forno di ricevere il pane, di solito a forma di guasteddra di circa un chilogrammo; prima d’infornare, però, veniva svuotato della brace, quindi scupatu ed infine, sul piano di cottura, veniva passato uno straccio bagnato o la stessa scopa inzuppata d’acqua. La stessa brace veniva prima astutata e poi cirnuta ccù crivu per ricavare carbonella e gginìsi ppi scarfatura (scaldini).
Si dava “luci ò furnu” fin quando la massa muraria interna diventava bianca per l’enorme calore. La temperatura non doveva essere né troppo bassa né troppo alta, e qui l’esperienza di chi faceva il forno era indispensabile. Il pane un tempo era un bene troppo prezioso per correre il rischio di sbagliare la cottura. “Cori, cori u pani s’appizzò era l’imprecazione della massaia quando si verificava una tale sventura.
Sfornare era un rito quasi magico. La prima guasteddra veniva segnata con una croce, fatta con il pollice della mano destra in segno di ringraziamento, le altre venivano poste a coltello su un asse di legno, “a tàvula”, spolverate da eventuali residui di farina mista a cenere. Quindi, dopo averle fatte raffreddare coperte da un telo bianco, venivano conservate nà càscia di lignu, avvolte con una tovaglia di cotone. Quelle di consumo giornaliero venivano conservate, invece, nò casciùni (nel cassetto), il porta pane di allora. Quel pane, con l’aggiunta di poco companatico, doveva sfamare tutta la famiglia per otto giorni!
Anche infornare era un rito: le pagnotte venivano poste dentro il forno ad una ad una, con la pala di legno venivano fatte scivolare sul piano di cottura, ben ordinate ed alla giusta distanza tra loro per evitare le cosiddette “vasature”. A vucca ù furnu veniva quindi chiusa con un portello in lamiera di ferro, che nei tempi più recenti ha sostituito l’antica “valata” in pietra. Si attendeva quindi la cottura, che durava circa un’ora, poco più d’inverno, meno d’estate. Quando una odorosa fragranza s’andava spargendo nell’aria, l’attesa diventava impaziente, specie nei bambini che non vedevano l’ora che il pane venisse sfornato. Col pane càvudu-càvudu si ripeteva la tradizione dù pani cunzàtu per tutta la famiglia.
Quelle atmosfere, fatte di odori, di fragranze, di profumi, ma anche di voci e volti familiari, riuniti attorno ad un forno a legna acceso, sono – per chi li ha vissute – indimenticabili.

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