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Sperlinga. Il Borgo Rupestre

Sovrasta la traversa interna della Statale n.120 ed è posto al lato orientale dell’abitato. Il costone roccioso, di arenaria compatta, come altri rilievi di uguale natura, è assai ripido, parallelo alla grande massa del Castello, che gli fa da sfondo, ed è solcato da stradelle incassate nel masso e sovrapposte in diversi ordini, fino all’apice della roccia. Ai lati esterni si aprono le numerose grotte, di varie dimen-sioni ma tipologicamente uniformi. Esse, insieme alle grandi cavità rupestri del Castello, evidenziano aspetti assai interessanti, e salvo probabili manomissioni del periodo bizantino (535-827 d.C.) possono ascriversi ad epoche molto remote; in ogni caso a periodi anteriori all’arrivo dei Greci in Sicilia. Queste abitazioni trogloditiche costituiscono l’unico elemento complementare abitativo intorno al Castello fino agli albori del XVII secolo, allorché il Signore dell’epoca ottenne il privilegio di costruire strutture edilizie abitative sul poggio sottostante la fortezza dallo stesso abitata, avviando l’inevitabile distruzione di numerosi ingrottati e riducendone molti altri ad uso di scantinati su cui vennero costruite le case. Da quell’evento edilizio, che si protrae ancora ai nostri giorni, solo il Borgo rupestre si è in buona parte salvato dalle sovrapposizioni in muratura, appunto per la sua posizione in forte pendenza e la conseguente assenza di ripiani atti a potervi sovrapporre strutture murarie di indirizzo abitativo o d’altri usi. In gergo locale, questo Borgo viene ancora indicato come “il Balzo”, ovvero “o bàózz” nello schietto dialetto locale di origine gallo-italico e che caratterizza la parlata degli Sperlinghesi, ancora in uso. Il toponimo indica chiaramente la massiccia conformazione della rupe. L’uso abitativo di queste numerose cavità scavate dall’uomo venne a cessare quasi del tutto, solo verso la fine degli anni cinquanta, allorché furono fatte costruire dallo Stato apposite “case per gli aggrottati”. Ma l’inarrestabile, seppur lento, esodo dalle grotte di Sperlinga va fatto coincidere in primo luogo col flusso migratorio già in atto nel tardo Ottocento, ed avviato, a ritmo sempre più crescente, col sorgere del XX secolo. L’emigrazione, infatti, costituì l’unico sbocco per le masse di contadini, relegate nelle aree feudali, verso mondi lontani. Di tale provvidenziale possibilità furono ovviamente i più coraggiosi ad approfittarne, soprattutto i meno abbienti, che di quanti vivevano nelle grotte e nelle povere casupole costituivano la quasi totalità. Per affrontare le spese di viaggio cedevano gli angusti poderetti di terra, che tenevano in possesso per concessione enfiteutica, a facoltosi locali i quali, accogliendo le invocazioni di quanti vi si prostravano, stabilivano unilateralmente la somma che, a loro insindacabile giudizio, ritenevano adeguata al valore degli immobili, dei quali venivano, ipso facto, in possesso. Dopo di che, spogliati letteralmente di quel poco che possedevano, questi autentici campioni dell’avventura, regolarmente analfabeti e privi di alcuna nozione di spazio e di tempo, affrontavano gli interminabili viaggi all’insegna di lusinghieri miraggi, col solo conforto della fede, unica forza inferiore di cui erano profondamente intrisi. Erano le terre del nuovo mondo ad accoglierli, e vi si adattarono non senza difficoltà iniziali. Alcuni di loro, conseguito lo scopo di mettere insieme i sudati risparmi ritornarono in paese, si costruirono la loro comoda casetta e ripresero a vivere ed operare, in condizioni ovviamente più avvantaggiate, rispetto a quelle misere ed umilianti che li avevano costretti ad emigrare. Non mancarono coloro che, non riuscendo ad inserirsi in un mondo radicalmente diverso da quello che avevano lasciato, ritornarono ad affossarsi nelle misere dimore, in cui vissero il resto della vita, e vi morirono, nella squallida miseria, della quale non ebbero la forza e la costanza per liberarsene. Molti, invece, vi fecero fortuna, ne assimilarono il sistema di vita e di ambiente e vi rimasero, pur con la nostalgia della terra che aveva dato loro i natali, nel cuore.
Quello di Don Mariano Napoli è il tipico esempio del vecchio emigrante, che trascorre quasi tutta la sua esistenza in Argentina. Aveva emigrato, insieme ai genitori, quando era un ragazzo di circa dieci anni. Cresciuto e sviluppatesi in un mondo tutto diverso dall’ambiente ristretto e sconfortante in cui era nato, mise a profitto il suo potenziale acume. Avviò una piccola industria, che riuscì a condurre e portare avanti con risultati vantaggiosi. Ma nel 1979, quando è ormai oltre la soglia degli ottant’anni, decide di rivedere la terra in cui era nato. Giunto a Sperlinga, dopo attimi di comprensibile esitazione, in un fulmineo risveglio mentale che stupisce gli astanti, Don Mariano imbocca una via del paese. Era proprio quella in cui era nato nel lontano 1898. La indica quasi con orgoglio al figlio ed ai fratelli, che gli sono compagni di viaggiò. Col viso mutevole e caratterizzato da sfumature che ne tradiscono il turbine sentimentale del momento. Don Mariano non crede ai propri occhi; sorride, parla, narra episodi, ora nitidi, ora confusi, della sua verde età trascorsa in paese. Scandisce, in dialetto sperlinghese incontaminato, le parole in una fraseologia rabberciata alla meglio. Gli episodi che ricorda sono pochi, e non offrono tanto al suo struggente desiderio di rammentare e raccontare. Anche se in definitiva dice sempre le stesse cose, finisce per commuovere gli astanti, accattivandosene la simpatia. L’attuale proprietario, presente, esaurendo l’esortazione di Don Mariano gli apre la porta della grotta, ed egli, entrandovi indica col dito gli angoli in cui erano i letti, il focolare, il forno e la mangiatoia per l’asino e la capra, in una angusta continuità spaziale che ne accomunava i soggetti, all’insegna di una esistenzialità ormai fuori del tempo e non più concepibile.

Bartolomeo Rividdi

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