sabato , Luglio 27 2024

Certa Chiesa non sa cosa sia il cattolicesimo

Il Festival di Sanremo è finito. Ma non mancano polemiche. A suscitare un grosso polverone sono certi ambienti ecclesiastici contro le esibizioni del cantante Achille Lauro e di Rosario Fiorello. Già la notizia fa ridere così in quanto questi stessi certi ambienti ecclesiastici dinnanzi ad una pandemia, dinnanzi alla dilagante povertà, dinnanzi anche e soprattutto alla disperazione di diverse famiglie, preferiscono concentrarsi sul festival e su come era vestito tizio o caio. E se qualcuno mette una sorta di copricapo con spine, per satireggiare su una tipologia di vestiario usata da un determinato cantante, subito a gridare lo scandalo, rivendicando quasi un copyright tutto ecclesiastico delle spine. Che poi, a ben vedere, non aveva solo le spine ma il tutto era corredato da un vestiario fatto di giubbotti e di pelle che sono passati in secondo piano (quelli non rientrano nei diritti d’autore). Ma la cosa più grave di tutte queste esternazioni che sono sintomo di una volontà di cinque minuti di celebrità, è il fatto che quegli ambienti ecclesiastici, che paventano la difesa del cattolicesimo, fanno di tutto tranne che essere cattolici. Il cattolicesimo insegna a comprendere e non a condannare. Il Dio dei cattolici è quello che ama anche e soprattutto i peccatori, non quello con il forcone in mano a punzecchiare e a incenerire il primo che guarda storto. È inutile, a certuni piace molto il Dio del vecchio testamento, quello che ammazzava i primogeniti, faceva diluvi universali, distruggeva città (bombe atomiche scansati) e dimenticano tutta quella parte del nuovo Testamento in cui il comandamento più importante è “amare”. Che poi c’è il fatto che tale comandamento si divide in due parti, uno di amare Dio con tutte le forze, lo spirito e cuore e poi amare il prossimo come se stessi è indubbio anche alla luce del fatto che certuni ricordano solamente la parte di amare sé stessi e tutto il resto, come un’altra celebre canzone, è noia. E lo vediamo in queste esternazioni in cui l’io del Vescovo, prete o uomo di chiesa di turno assurge a giudice, giuria e boia. Il pastore al posto di andare alla ricerca della pecorella smarrita preferisce mettere alla brace le altre 99. E sempre più, senza blasfemia, ci convinciamo che forse certi ambienti preferiscono vedere la pagliuzza nell’occhio del prossimo per nascondere l’immensa trave nei propri.

Alain Calò


Riferimento Achille Lauro si riporta quanto scritto da Paolo Mauri per ilgiornale.it

Lauro, che si è presentato sul palco brandendo il Tricolore, lo ha lasciato cadere a terra per poi effettuare la sua esibizione. Il gesto non è piaciuto a molti, e in particolare a una persona: il generale di brigata Rodolfo Sganga, comandante dell’Accademia Militare di Modena, la fucina dei nostri ufficiali dell’Esercito, dal settembre del 2019.
Il generale, infatti, ha rivolto un pensiero agli allievi ufficiali dell’Accademia Militare di Modena con un post sul proprio profilo Facebook in cui critica aspramente l’esibizione di Lauro. Il pluridecorato ufficiale comandante scrive: “Cos’è il Tricolore? Il Tricolore è una cosa seria. È il simbolo della nostra Patria che è la Terra dei Padri. E la Patria non è un concetto astratto, anzi! Rappresenta la nostra storia, le nostre tradizioni, i nostri Valori, la nostra cultura, la nostra lingua, le nostre famiglie. La nostra Patria siamo noi. Quel Tricolore siamo noi. Il Tricolore è la bussola etica che ci indica costantemente la direzione corretta da seguire nella vita. E noi Soldati in uniforme, gli rendiamo omaggio in maniera solenne ogni mattina. Per difendere quel Tricolore sono morti Soldati a centinaia di migliaia e altrettanti Italiani sarebbero pronti a farlo se dovessimo difenderlo ancora. Ecco cos’è il Tricolore”. Una bandiera gettata a terra su un palco non è quindi un modello edificante. Sganga prosegue: “Ricordatevelo ogni volta che vedrete qualche “fenomeno del momento” che gli manca di rispetto. Perché purtroppo ne troverete molti nel corso degli anni. Quello sarà il momento di porre a lui la seconda domanda: “Ma tu chi sei? Il Tricolore è sopravvissuto fino ad oggi a combattenti, avversari, eventi e vicissitudini che hanno tentato di strapparcelo. Sopravviverà anche a questo signore vestito di piume…”. La reprimenda del generale è pienamente comprensibile oltre che condivisibile: la bandiera nazionale non è un drappo qualsiasi, esiste perfino una legislazione che ne prescrive “l’utilizzo”, la sua cura ed il modo di maneggiarla, come esiste anche il vilipendio alla bandiera, sebbene non più rientrante nelle casistiche di reato penale. Se è scontato che un militare, soprattutto con una carriera come quella del generale Sganga, si senta offeso dal gesto di Lauro, purtroppo non lo è per la gente comune, o almeno per una buona parte di essa. Basterebbe dare uno sguardo ai vessilli nazionali che sventolano sulle nostre scuole o edifici delle amministrazioni locali per vedere, spesso e volentieri, come siano malridotti e sporchi, eppure la legge prescrive che la bandiera nazionale sia tenuta sempre in buono stato e pulita. Purtroppo non è più tempo per i simboli, o meglio per certi simboli, così abbiamo ministri che appoggiano i piedi sulle scrivanie dei dicasteri che occupano per “mostrarsi giovani” e per mostrare le scarpe rosse simbolo della violenza sulle donne in un contesto in cui è richiesta una certa etichetta istituzionale (sarebbe bastata una foto diversa per evitare polemiche e sortire lo stesso sacrosanto messaggio di solidarietà), in una continua opera di destrutturazione della “sacralità” di certi ambiti celata dietro l’ipocrita finalità del loro “svecchiamento”.

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