Ha fatto discutere la partecipazione attiva di un vicequestore della polizia a una manifestazione contro il green pass. Si sono divise anche le forze politiche, tra chi afferma l’inopportunità dell’iniziativa e chi difende la libertà di pensiero.
Il caso
In una democrazia matura la libertà di manifestare il proprio pensiero è un principio di civiltà contenuto in tutte le carte costituzionali. Vi si sarà ispirato il vicequestore della polizia di stato che, dopo essere salito nei giorni scorsi sul palco di piazza San Giovanni a Roma, nel contesto di una manifestazione, ha dichiarato che “il green pass è illegittimo”. Il funzionario della polizia di stato, che si presentava in abiti civili e non in servizio, citando Gandhi, ha invocato la “disobbedienza civile” come “dovere sacro quando lo stato diventa dispotico”, concludendo che “noi poliziotti abbiamo giurato sulla Costituzione, per questo sono qui” e che “dobbiamo unire le nostre energie per indicare una via migliore”.
A questo punto sorge spontanea una domanda, alla quale molto probabilmente saranno chiamati a rispondere anche il capo della polizia di stato e lo stesso ministro dell’Interno. Può un servitore dello stato, qual è certamente un componente graduato delle forze di polizia, invocare da libero cittadino la “disobbedienza civile” contro un obbligo di legge che il medesimo è tenuto a fare rispettare nell’esercizio della funzione pubblica correlata alla divisa che indosserà, appena dopo qualche ora, durante la propria attività lavorativa? È ipotizzabile una pseudo obiezione di coscienza?
L’ubi consistam di questa riflessione non concerne il merito del green pass né la libertà di condividere o meno l’estensione massiva dello strumento. La questione è se libertà di esprimere il proprio dissenso al green pass, assicurata dalla Costituzione (articolo 21), trova dei limiti nella medesima Costituzione, ovvero se è ipotizzabile una pseudo obiezione di coscienza da parte di chi, investito di funzioni pubbliche, è chiamato a far rispettare un obbligo previsto dalla legge.
Obiezione di coscienza e fedeltà alla Repubblica
Invocare la “disobbedienza civile” significa promuovere un comportamento finalizzato al rifiuto di obbedienza a una legge o a un comando dell’autorità perché considerato in contrasto con i principi e le convinzioni personali radicati nella propria coscienza.
Da una veloce lettura della Costituzione emerge che l’obiezione di coscienza, strettamente circoscritta ai casi espressamente previsti dalla legge (leva militare, interruzione della gravidanza, testamento biologico), subisce una decisa limitazione quando viene sollevata da quei cittadini che, oltre a essere chiamati alla comune fedeltà alla Repubblica e al rispetto di leggi e Costituzione (articolo 54, comma 1), risultano affidatari di funzioni pubbliche che, peraltro, devono adempiere con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge (articolo 54, comma 2, Cost.). In tale direzione soccorre il pronunciamento del Consiglio di stato a tenore del quale, “(…) a chi avanza – anche in tali contesti pubblicistici – motivi di coscienza va replicato che solo gli individui hanno una coscienza, mentre la coscienza delle istituzioni pubbliche è costituita dalle sole leggi che le regolano (principio di legalità)” (sentenza n. 4460/2014).
Di conseguenza, il cittadino che esercita funzioni pubbliche deve necessariamente spogliarsi delle sue convinzioni etiche, morali, politiche e religiose per veicolare all’esterno solamente la volontà dell’istituzione pubblica che rappresenta o per la quale presta servizio.
Peraltro, l’articolo 54 della Costituzione afferma che “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la costituzione e le leggi”. Se a questo dovere sono chiamati tutti i cittadini, “a quei cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche” viene richiesto anche “(…) il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
Pur essendo la giurisprudenza pressoché unanime nell’affermare che dal “giuramento” derivi solamente un “vincolo di ordine morale che si aggiunge ai doveri giuridici già esistenti”, non è da mettere in dubbio che si tratta, all’evidenza, di una “fedeltà qualificata” alla Repubblica, generatrice non soltanto del potere gerarchico e di quello disciplinare, ma anche di possibili aggravamenti nella disciplina penale e di quella del rapporto di servizio, così come di limitazioni all’esercizio di libertà normalmente riconosciute a ogni cittadino. In sostanza, tutti dobbiamo essere fedeli alla Repubblica, ma ancor di più coloro che, esercitando funzioni pubbliche, rappresentano lo stato nella sua veste personalistica, onere ben più gravoso rispetto alla ordinaria fedeltà che la Costituzione richiede ai cittadini e che più comunemente può essere annoverata nel “senso civico”.
Tirando le fila di queste brevi considerazioni, appare evidente come la Costituzione repubblicana sia ispirata, in molte sue parti, all’affermazione dei principi dell’“etica del dovere”.
Il comportamento dei dipendenti delle forze di polizia
Esclusa l’ipotesi dell’obiezione di coscienza, rimane da capire se al rispetto della “fedeltà qualificata” alla Repubblica è anche chiamato il cittadino-funzionario che esprime liberamente il proprio pensiero allorquando, come in questo caso, non è in servizio.
In relazione al comportamento dei dipendenti pubblici, il Testo unico del pubblico impiego (Dpr n. 3/1957), ancora oggi vigente, dispone che qualsiasi cittadino incaricato di esercitare funzioni pubbliche in forza di un rapporto di lavoro dipendente “(…) deve prestare tutta la sua opera nel disimpegno delle mansioni che gli sono affidate curando, in conformità delle leggi, con diligenza e nel miglior modo, l’interesse dell’amministrazione per il pubblico bene”. Ancora, “l’impiegato deve conformare la sua condotta al dovere di servire esclusivamente la nazione, di osservare lealmente la Costituzione e le altre leggi e non deve svolgere attività incompatibili con l’anzidetto dovere”. Viene altresì previsto che “fuori dell’ufficio, l’impiegato deve mantenere condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni”.
Che vi sia un’esigenza di assicurare un comportamento decoroso e rispettoso delle funzioni che si esercitano anche al di fuori degli orari di servizio appare ovvio e, comunque, previsto espressamente nei regolamenti speciali della polizia, che in particolare così si esprimono: “il personale anche fuori servizio deve mantenere condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni” (Dpr 28 ottobre 1985, n. 782); “qualsiasi altro comportamento, anche fuori dal servizio, non espressamente preveduto nelle precedenti ipotesi, comunque non conforme al decoro delle funzioni degli appartenenti ai ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza” è sottoposto a sanzione disciplinare (Dpr 25 ottobre 1981, n. 737).
Si può quindi concludere affermando che correttezza, lealtà, onore, decoro e disciplina sono i principi generali di condotta degli appartenenti alle forze di polizia evincibili da tali disposizioni, le quali richiamano pure una condotta conforme al senso morale, alla dignità delle proprie funzioni e ai doveri assunti con il giuramento. Ne deriva che il comportamento del vicequestore appare in contrasto con i doveri incombenti sul medesimo quale appartenente alla Ps, dunque tenuto, come tale, all’osservanza dei doveri assunti col giuramento, tra i quali il dovere di fedeltà e lealtà verso l’istituzione di appartenenza nell’assolvimento dei compiti d’istituto, che costituisce il fondamento del rapporto di servizio e della stessa credibilità delle istituzioni nel loro complesso. Invero, il comportamento di colui che per l’appartenenza alla polizia di stato tutela l’ordine e la sicurezza pubblica deve essere tale da non pregiudicare il rapporto fiduciario con l’amministrazione e con la collettività anche allorquando indossa, solo momentaneamente, abiti civili.
Massimo Greco