Ci è successo di sapere, in un paesino della Sardegna, di un funerale con due bare (e no, i due morti non erano né parenti, forse al più conoscenti). E se la cosa già vi pare alquanto strana sappiate che era in programma l’indomani un funerale con ben tre bare! Per giustificare questo “assembramento di morti” si adopera la ormai consolidata formula che “non ci sono più preti” come “non ci sono più medici”, “non ci sono più ingegneri”, “non ci sono più le mezza stagioni”… . E se dalle nostre parti ancora non è successo di assistere a funerali poli-bare, fa senz’ombra di dubbio scalpore leggere un piccolo “sfogo” di una signora sul trattamento ricevuto il giorno del matrimonio della figlia.
Non indicheremo il paese e circostanze che possano rendere peculiare il fatto, ma ci limiteremo a dire che è successo nella Diocesi di Nicosia e le circostanze ci permettono di fare un ragionamento più ampio. Il matrimonio è certamente una delle tappe più importanti della vita di un essere umano. E dalle nostre parti è fortemente sentito (anche perché la fede cattolica è molto radicata) il fatto di doversi sposare in chiesa. La chiesa rappresenta, certamente, checché ne vogliano dire anche certi falsi ipocriti, un bel contesto in cui anche chi non ha fede vuole sposarsi perché la cerimonia in sé ha quel fascino per certi versi magico e indimenticabile che ben si coniuga come coronamento di un amore. E, ovviamente, vi è anche l’aspetto spirituale, quello sacramentale. Le emozioni che, dunque, confluiscono nel giorno del matrimonio sono immense ed è quindi responsabilità dell’officiante entrare in punta di piedi (ovvero con rispetto) in questo importante momento. Ma se l’officiante non ha più quell’afflato del pastore ed è ormai diventato un freddo burocrate che vede il matrimonio solo un contratto da firmare (e anche la rottura di un matrimonio è nient’altro che un’altra carta da firmare), il sogno si trasforma in un incubo. E succede che la meticolosità di preparazioni che hanno richiesto anche mesi (nonché gli anni di speranza) vengono totalmente calpestati da un officiante frettoloso che non vede l’ora di completare la cerimonia (tagliando tutto il tagliabile) per arrivare alla firma del contratto come un normale ufficio e chi si è visto si è visto. Passi anche l’aver ridicolizzato in certi contesti la preparazione al matrimonio non come un momento di crescita ma quasi come una materia universitaria con libro da studiare, relativo esame (magari anche diplomino consegnato) con commissione giudicatrice il livello di ortodossia raggiunta in una scala da 1 a 10. Non è certamente questa la Chiesa che meritiamo e, soprattutto, non è certamente questa la Chiesa che meritano chi crede nella Chiesa stessa. La Chiesa non è un ufficio di contratti e i preti non sono lavoratori qualunque ma devono essere pastori di anime. E il pastore, quello giusto, è colui che cura le proprie pecore con orgoglio, seguendole passo passo e non limitandosi a quegli allevamenti intensivi meccanizzati che ben poco hanno a cuore della salute psico-fisica dell’animale. Essere prete non è un obbligo ma è una vocazione. Non è un posto fisso votato a San Paganino di ogni 27 del mese, ma è una persona che ha deciso di investire la propria vita al servizio della propria e altrui spiritualità, staccandosi dai burocratismi e dalle miserie umane della vita terrena. E poi capita di trovare differenze tra Diocesi su chi si possa sposare e chi no, ma anche all’interno della stessa Diocesi con parrocchie in cui una cosa è ammessa da una e da un’altra no (magari uno non ammette il matrimonio tra conviventi, un altro lo accetta ma deve essere una convivenza minore o uguale di 90 giorni pena 50 giorni di cilicio, quel tizio si può cresimare in una parrocchia ma in un’altra no perché non è figlio legittimo o si è addormentato durante l’omelia e non è stato frustato a dovere… vabbè ci stiamo divertendo, ma capita di assistere a parrocchie che sembrano parlare di due religioni diverse). Se anche la Chiesa diventa un ufficio posto solo a rilasciare scartoffie, chi penserà alla salute delle anime? Speriamo che lassù, se qualcosa esiste, non ci ritroviamo un San Pietro all’ingresso del Paradiso tutto preso tra codici e codicilli, timbri, commi e altro, a decidere chi può avere la patente (in triplice copia con marca da bollo) per entrare e chi no.
A questi preti ormai così “burocraticizzati” forse servirebbe un bel periodo di “ferie forzate” (ora parliamo anche noi burocratese): fare i sacerdoti delle origini, ovvero andare a portare la buona novella e la carezza di Dio nei luoghi più lontani del mondo dove vi è tanta sofferenza e anche tanta cattiveria. Cambiare aria, quindi, per ricordarsi che non di “soli contratti vive l’Uomo”.
Alain Calò
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