venerdì , Dicembre 6 2024

IL SUICIDIO E L’EMBLEMATICO CASO DI LUIGI TENCO

IL SUICIDIO E L’EMBLEMATICO CASO DI LUIGI TENCO

Tesi di Laurea di Miriam Calò

INDICE
pag.
INTRODUZIONE 3
CAPITOLO 1 – IL SUICIDIO – GENERALITA’
1.1   DEFINIZIONE DI SUICIDIO 7
1.2   IL SUICIDIO COME FENOMENO SOCIALE 9
1.3   IL SUICIDIO NEL MONDO 15
1.4   IL SUICIDIO NEI GIOVANI 21
CAPITOLO 2 : LA VISIONE DEL SUICIDIO NELLA STORIA E L’ESEMPIO EMBLEMATICO DI LUIGI TENCO
2.1 IL SUICIDIO NELLA PSICOLOGIA E NELLA FILOSOFIA 25
2.2 IL SUICIDIO NELLA STORIA E NELLA LETTERATURA 27
2.3 BIOGRAFIA DI LUIGI TENCO 30
2.4 ANALISI DELLA DISCOGRAFIA DI LUIGI TENCO 32
2.5 IL CONTESTO DEL SUICIDIO DI LUIGI TENCO: IL FESTIVAL DI SANREMO 34
2.6  27 GENNAIO 1967 – IL SUICIDIO 35
CAPITOLO 3: IL CASO TENCO
3.1 L’IMPATTO DEL SUICIDIO SULLA KERMESSE SANREMESE E NEI GIORNI SEGUENTI 38
3.2  IL “CASO MODUGNO” E L’ESCLUSIONE DELLA CANZONE “MERAVIGLIOSO” 41
3.3 IL “CASO TENCO” – L’INCHIESTA DEGLI ANNI NOVANTA, L’ESUMAZIONE DEL CORPO E L’ACCETTAZIONE DELLA TESI DEL SUICIDIO 50
CONCLUSIONI 55
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA 57

 

INTRODUZIONE

Il suicidio è un fenomeno che, potremmo dire, è nato con la società. Un atto talmente forte e importante che ha, di volta in volta, scosso la storia, nel macro e nel micro, lanciando messaggi variegati: politici, civili, sentimentali, eccetera. Ma, aldilà di tutto, il suicidio è un atto volontario, forse l’atto volontario per eccellenza, che dà all’essere umano  la possibilità di privarsi con le sue stesse mani della propria vita, bene primigeno e sicuramente il più prezioso.  L’atto è per molti un tabù, per altri è visto come un gesto di coraggio, per altri ancora un gesto di viltà. Sta di fatto che è comunque innegabile quell’aura di mistero che avvolge il suicidio, non foss’altro per il fatto che dopo l’atto in sé segue la morte, vero mistero della nostra vita. Ed ecco come spesso la mente umana, dinnanzi all’inspiegabile, prova contrastanti emozioni che possono variare dal totale ribrezzo fino all’ammirazione e, perché no, alla celebrazione dell’atto. Ma, come uno spettro elettromagnetico, tra i due estremi sono presenti diverse sfaccettature e sfumature.

Il presente lavoro, seppur non prettamente dedicato a tale scopo, non può prescindere dal delineare una visione, generale non di certo esaustiva, di questi estremi e delle varie sfumature. Un altro obiettivo è senz’ombra di dubbio quello di quantificare l’entità del fenomeno, ovvero toccare con mano quello che gli antichi Greci chiamano ϕαινομαι (“ciò che si vede”), anche per meglio dare un’idea sull’incidenza del suicidio. Con l’ovvio rispetto della delicatezza della tematica, ci pare importante sottolineare come i numeri riportati nel seguito non devono essere visti come un dato freddo. Lungi da qualsiasi esercizio retorico, ogni unità rappresenta una storia, grande o piccola che sia. E ogni storia di suicidio ha portato dietro di sé forti emozioni (o di chi ha compiuto l’atto, o delle persone accanto) con l’atavica domanda del “Perché?”. Non esiste, ovviamente, un’univoca risposta, dato che ogni unità ha il proprio “Perché”, rendendo ancora più complessa la tematica trattata e spezzettando praticamente all’infinito lo spettro elettromagnetico del suicidio. E, peraltro, non è neanche detto che la risposta a quel “Perché” sia esatta. Chi, infatti, può permettersi di entrare all’interno di ogni singola mente? Possiamo creare modelli, anche tendenti alla formale perfezione, ma la complessità e le sfaccettature tipiche di ognuno di noi sono praticamente intelligibili. Noi, comunque, proviamo a seguire tali modelli cercando di fornire esempi concreti di suicidi che hanno insanguinato la storia. Troviamo suicidi “imposti” come quello di Socrate, suicidi per sfuggire a una cattura come quello di Annibale o anche quello di Hitler, suicidi per ragioni di Stato come quelli dei Kamikaze. E anche la letteratura, nonché l’arte in genere, ci fornisce esempi di suicidio, come ad esempio quello di Didone che si getta dopo l’addio di Enea. E altresì il suicidio di Romeo e Giulietta. E troviamo di nuovo suicidi “civili” come quello di Jacopo Ortis e suicidi che hanno invaso persino il mondo musicale come, ad esempio, canta Fabrizio De Andrè ne “La ballata dell’amore cieco”. Ed è il mondo musicale italiano ad aver ricevuto un suicidio “eccellente” quale quello di Luigi Tenco, avvenuto nel bel mezzo della kermesse più importante della musica italiana, ovvero il Festival di Sanremo. Un suicidio che ha destato molto clamore anche per il fatto del luogo; ben meno clamore, infatti, ha fatto il suicidio di Gabriella Ferri, famosa cantante romana, avvenuto nella propria abitazione, o del regista Mario Monicelli che si gettò da una finestra dell’ospedale in cui era ricoverato. Un suicidio, quello di Tenco, avvolto dall’ombra di mistero sul fatto che ”qualcosa non quadra” e che ha condotto a processi e inchieste protrattisi sino al nostro presente. Un suicidio, quindi, emblematico perché ha fatto, da un lato, proiettare il Festival di Sanremo in un’altra dimensione (strano gioco del destino giunto alla XVII edizione, ovvero alle porte della maggiore età) dall’altra parte ha scosso l’opinione pubblica italiana su un tema praticamente tabù, in un’Italia in cui veniva censurato anche il verso “per un attimo d’amore” (da “Un uomo in frac” di Domenico Modugno) perché considerato troppo “spinto”. Il suicidio di Tenco è stato spartiacque sociale tra l’Italia troppo cristallizzata in un ottimismo illusorio per la vita anche grazie al boom economico, e l’Italia che ritrova se stessa, ritorna con i piedi  per terra scoprendo le proprie debolezze e tutti i suoi desideri, e quindi anche i sentimenti di mancanza, di oppressione e di alienazione dalla vita. E non a caso siamo alle porte delle proteste del ’68.

E qui si è toccato forse il principale motivo del suicidio: mancanza, oppressione, alienazione dalla vita, voglia di fuggire da un presente che ci stritola e che ci conduce inesorabilmente verso quel disagio di civiltà già denunciato da Freud. In quest’ottica, ricollegandoci al discorso più generale, sempre consci che, comunque, ciascun abbia il proprio “Perché”, riteniamo interessante riportare l’iniziativa messa in atto nel 1982 da Gerd Achenbach di istituire un’associazione per la consulenza filosofica. Tale iniziativa nasce dall’esigenza di curare gli uomini da sofferenza e disagi che non possono essere curati dalla medicina tradizionale e che hanno come comun denominatore le mutate condizioni di vita nella società attuale da cui deriva una accresciuta complessità del contesto sociale e la tremenda accelerazione che caratterizza la vita contemporanea. Malesseri che possono sopraffare l’individuo e condurlo anche al suicidio e che, quindi, il consulente filosofico deve saper cogliere e curare attraverso l’analisi delle diverse linee di pensiero e i diversi approcci dei filosofi del passato. D’altronde, già Talete, annoverato tra i Sette Saggi, si occupava di rispondere agli interrogativi sull’uomo e la propria natura. E così via nei secoli, facendo della filosofia, riprendendo Seneca, il timone che ci guida tra i marosi della vita. Philosofandum est (“bisogna fare filosofia”) esorta il Nostro a Lucilio. Bisogna fare filosofia aldilà di tutto, dell’esistenza o meno di un Dio o del caso, perché, seppur non può rispondere pienamente alla domanda finale sulle motivazioni della volontà di porre fine alla propria esistenza, magari permette di avvicinarci nella comprensione di noi stessi, della nostra esistenza e di ciò che facciamo.

Con quest’ottica sarà svolto il seguente lavoro: non saltando ad aprioristiche conclusioni, ma fotografando, come moderna nottola di Minerva di Hegeliana memoria, ciascuna situazione e trattandola con il dovuto rispetto. Con queste basi avremo gli strumenti utili per poter fare una più compiuta trattazione e, perché no, avanzare qualche ipotesi che, ovviamente, non pretende di avere ragione assoluta, ma viene lanciata con cognizione di causa all’interno di un più ampio dibattito. Perché l’episodio di Luigi Tenco, aldilà dell’emblematicità e del clamore suscitato, e in prima ed in ultima analisi un suicidio. Ed è questa la vera trattazione da fare e che ci interrogherà nel presente lavoro, come in altri lavori passati  di sicuro valore e che sono citati nella bibliografia e utilizzati nel percorso di stesura di queste pagine.

 

CAPITOLO 1: IL SUICIDIO – GENERALITA’

  • DEFINIZIONE DI SUICIDIO

Il termine suicidio deriva etimologicamente dal latino ed è composto dalle parole  “sui” e “caedere” ovvero “uccidere se stessi“. Rappresenta la forma più estrema di autolesionismo e la sua fenomenologia è culmine di uno stato psicofisico altamente alterato, tipicamente in condizione di grave disagio e malessere. Nella definizione di suicidio, tuttavia, è opportuno effettuare delle importanti distinzioni. Il suicidio in quanto tale è, infatti, un atto volontario col quale ci si priva della propria vita. È quindi un atto  fattivo e che si conclude con la morte di chi ha deciso di porre fine alla propria esistenza. Diversamente, il tentato suicidio, pure essendo definito come “l’anticamera” del suicidio, non possedendo il carattere di fatalità, rientra nella categoria dell’autolesionismo assieme a tutti gli atti, anche gravi, che un individuo effettua su se stesso (“auto” dal greco significa “da sé”), col desiderio di provocarsi dolore e sofferenza o, addirittura, terminare la propria vita senza che, però, tali atti si concludano con la morte. Interessante e controversa è anche una tipologia di suicidio quale quello definito “assistito” in quanto entra in gioco un soggetto “terzo” che, offrendo consulenza o addirittura un mezzo, asseconda il desiderio di morire di un soggetto suicida. Ciò differisce dall’eutanasia, in quanto l’atto finale nel primo caso viene compiuto interamente dal soggetto che intende suicidarsi, mentre il soggetto (o i soggetti) “terzi” si occupano semplicemente di fornire assistenza su altri aspetti che possono variare dalla preparazione del mezzo o delle sostanze per suicidarsi o anche legati agli aspetti della fase post mortem.

Oltre al suicidio “semplice”, dove cioè ad essere coinvolta è una singola persona, non si può prescindere dall’indicare nel novero di questa casistica altre forme particolari di suicidio quale, ad esempio, il suicidio collettivo o di massa in cui un gruppo di persone decide di porre simultaneamente fine alla propria vita (generalmente a seguito di particolari riti o cammini)  ed il suicidio cosiddetto “allargato” che, come definisce Ugo Fornari  nel suo “Trattato di psichiatria forense”, è quella pratica di uccidere i propri familiari (o comunque persone vicine in senso affettivo) oltre a se stesso. Spesso questa forma di suicidio, che in maniera più corretta potrebbe anche definirsi “omicidio suicidio”, si riscontra in quei genitori che uccidono i propri figli come una sorte di “difesa” (quasi, nella mente dell’omicida, “atto d’amore”) in quanto non vogliono lasciare soli i propri figli a sopravvivere senza alcun sostegno dato che a seguito di questo omicidio segue il suicidio (o tentato suicidio) del genitore. Un caso famoso di questa particolare forma di suicidio è quello della famiglia di Joseph Goebbels, Ministro del Reich Tedesco,  che si tolse la vita il primo Maggio 1945 nel celeberrimo bunker di Berlino dove si rifugiò Hitler (anch’egli suicida) durante gli ultimi atti della Seconda Guerra Mondiale. Ciò avvenne assieme alla propria moglie Magda dopo avere ucciso i propri sei figli. In questo particolare caso, oltre alla forma di suicidio allargato, potremmo (condizionale d’obbligo in quanto le fonti non concordano) riscontrare la forma di suicidio assistito dato che Magda Goebbels si fece aiutare nell’atto di uccisione dei figli dal medico delle SS Helmut Kunz che narcotizzò i sei bambini con della morfina a cui fece seguito l’uccisione attraverso la rottura di una capsula di cianuro in ciascuna delle loro bocche, capsule forse fornite dal dottore Ludwig Stumpfegger (che peraltro alcuni storici indicano come aiutante nell’uccidere i bambini).

Come si può notare, da questo esempio e anche dagli altri che verranno offerti nel seguito, l’ampia gamma che copre la casistica dei suicidi potrebbe complicare l’inserimento di alcuni singoli episodi in una o in un’altra categoria. Sta comunque di fatto che il comun denominatore di tutte queste categorie, ossia la volontarietà di porre fine alla propria vita, non è un fenomeno isolato, ma un vero e proprio fenomeno sociale.

 

  • IL SUICIDIO COME FENOMENO SOCIALE

Nell’opera di Emile Durkheim  “Il suicidio. Studio di sociologia”, il suicidio viene posto sotto la lente di ingrandimento della sociologia. Sembra quasi una “rivoluzione copernicana” in cui l’individuo non viene più analizzato nella sua singolarità, avvalendosi di un’analisi solamente intima e psicologica, ma viene calato nel teatro della società. Questa analisi trova fondamento anche nei dati statistici, basti pensare, infatti, che, secondo una stima dello studioso P. Värnik, le persone che muoiono per mano propria coprono una percentuale tra lo 0,5 – 1,4% del totale dei morti. Per altro il suicidio rappresenta, sempre secondo un ulteriore studio condotto da K. Hawton e K. Heerinjena, la decima causa di morte in assoluto con un numero di circa un milione di persone l’anno. Ma, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, oltre all’azione effettuata, è anche interessante attenzionare  tutte le altre azioni che possono essere viste come tentato suicidio. E qui i numeri diventano qualcosa di impressionante in quanto, come sostenuto da B. Chang, D. Gitlin e R. Patel, per ogni suicidio portato al termine si calcola che ci sia un numero variabile tra 10 e 40 tentati suicidi. E se le stime sembrano qualcosa di poco concreto, basti pensare che solo negli Stati Uniti nel 2009 a fronte di circa 36.000 suicidi (numero che portò il suicidio ad essere la decima causa di morte nel Paese quell’anno) ci furono 650.000 persone che furono accettate nei dipartimenti di emergenza dopo un tentato suicidio non riuscito. Il problema di questo numero già di per sé enorme è che il 50% circa, soprattutto tra gli adolescenti, di chi ha tentato di togliersi la vita, tenterà un gesto estremo entro i prossimi 2 anni. Sempre tornando a dati statistici, possiamo vedere come nel mondo Occidentale la maggior parte dei suicidi sia commesso dagli uomini, addirittura tra le tre e quattro volte più delle donne, una forbice che aumenta arrivando ad un rapporto di 10 a 1 negli over 65. Anche l’età gioca un ruolo fondamentale, essendo il suicidio caratteristico soprattutto nella mezza età e in età avanzata, senza comunque tralasciare anche l’incidenza del fenomeno nei giovani tra i 15 e i 29 anni, un vero proprio picco in termini assoluti (il numero assoluto potrebbe comunque spiegarsi anche col fatto che i giovani sono la parte maggioritaria nel mondo rispetto alle altre due precedenti categorie)  rappresentando addirittura la seconda causa di morte in questo range anagrafico, sorpassato solo dalle morti accidentali (come confermato dallo studio di  Hawton, Saunders, O’Connor). Questi dati danno la prova di quanto afferma Durkheim che, ovviamente con dati e statistiche di allora, vengono letti sotto la visione del collettivismo metodologico, ovvero cercando di spiegare le azioni dell’individuo nel contesto della società. Non è quindi il suicidio qualcosa di prettamente “intrinseco” nell’individuo (virgolettato d’obbligo a causa dell’ampia complessità del fenomeno) ma è qualcosa profondamente radicato nella società, anzi è addirittura il modus in cui funziona la società stessa ad influenzare il tasso di suicidio assieme, ovviamente, anche a come le persone sono integrate nel loro ambiente. Fatto questo assunto, secondo lo stesso Durkheim, un fenomeno sociale può essere spiegato solo da un altro fenomeno sociale. Siamo, quindi, dinanzi ad una visione più complessa nel senso che copre un orizzonte più ampio, non più collegato alla individualità “fuori contesto”:

Se iniziamo dall’individuo, non saremo in grado di capire nulla di ciò che sta accadendo in un gruppo […] di conseguenza, ogni volta che un fenomeno sociale viene spiegato direttamente indicando un fenomeno psicologico, possiamo essere sicuri che la spiegazione sia sbagliata”, ma addirittura cerca un nesso causale all’interno dello stesso contesto sociale, integrando il medesimo suicidio nella società “Il suicidio coincide negativamente con il grado di integrazione nei gruppi sociali a cui l’individuo appartiene […]. Ci deve essere quindi una forza nell’ambiente comune che colpisce tutti nella stessa direzione, e il numero di suicidi individuali sarà alto o basso a secondo di quanto forte o debole sia questo potere”.[1]

Attraverso questi due assunti si muove tutta l’analisi durkheimiana, trovando nella statistica il proprio cimento. Un esempio lampante di ciò potrebbe essere interessante valutare quale influenza abbiano sul suicidio le crisi economico-politiche. Se, infatti, valutassimo aprioristicamente il suicidio come qualcosa solamente di individuale, crisi e suicidio dovrebbero essere qualcosa di strettamente connesso nel senso di vedere aumentare i suicidi in questi delicati periodi. Eppure durante le rivoluzioni del 1848 che furono un vero e proprio stravolgimento degli assetti politici-economici dell’Europa, si assistette ad un tasso di suicidio addirittura più basso. Si potrebbe obiettare pensando ad un caso isolato, una singolarità statistica, dato che, come siamo stati bombardati dai media e dalla propaganda partitica, la presenza di una crisi economica comporta un aumento di suicidi, basti pensare alla recente crisi del 2008. Questo rappresenta un “mito da sfatare” che continua ad avallare la tesi di Durkheim in quanto, come apparso su “Wired” nel 2012 in un articolo dal titolo “I suicidi non sono aumentati per la crisi”, la giornalista Daniela Cipolloni ci dimostra che, come nel 1848 e contrariamente alla tesi dominante “crisi=più suicidi”, la crisi del 2008 non avrebbe prodotto un significativo aumento di suicidi. Come peraltro affermò Stefano Marchetti, allora responsabile dell’indagine dell’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) sui suicidi e tentativo di suicidio in Italia relativo all’anno 2010: “Ogni gesto estremo […] nasconde una tragedia umana e impone il massimo rispetto. Ma è difficile affermare, oggi, che vi sia un aumento statisticamente significativo dei suicidi dovuti alla crisi economica.[2]

Se si vanno a confrontare i dati, nel 2008 i suicidi il cui movente, per come indicato dalle forze dell’ordine, è stato di ragione economiche sono stati 150 (2828 casi in totale di suicidi quell’anno). Nel 2009 sono stati 198 casi a fronte di un totale di 2986 casi. Nel dato numerico isolato si vede un aumento significativo tra i 150 del 2008 e i 198 del 2009 e addirittura un calo nel 2010. Ma rapportare questi dati con il dato globale di tutti i suicidi avvenuti in Italia lo stesso anno, ci porta ad un aumento che è poco più dell’1%. Non solo, paradossalmente si è assistito ad un aumento di suicidi significativo nella loro globalità in Germania e in Finlandia, Stati che hanno retto bene i contraccolpi della crisi economica oltre ad avere una migliore qualità della vita, ma che hanno registrato rispettivamente un numero doppio e quadruplo di suicidi in confronto all’Italia, mentre la Grecia, Stato particolarmente colpito dalla crisi economica è al contempo il Paese Europeo con meno suicidi (come testimoniano gli studi statistici condotti da Eures). Tutto ciò sta a dirci che sì, i debiti e le crisi possono creare un ambiente favorevole ad un gesto disperato (infatti l’aumento sta nei soggetti  maggiormente colpiti tra i disoccupati)  ma il fenomeno del suicidio è qualcosa di più vasto e complesso. Anche oggi la pandemia da COVID19 con le conseguenti restrizioni deve essere ben attenzionata nel suo vero “effetto” sul suicidio. Non un qualcosa sotto un’ottica di un rapporto causa-effetto, ma una sofferenza che si aggiunge ad altre sofferenze già presenti e che incide su condizioni, quindi, già critiche. Come, peraltro, afferma Maurizio Pompili, Professore ordinario di psichiatria alla Sapienza di Roma, il suicidio non deve essere visto come avvicinamento alla morte ma allontanamento dalle sofferenze, emozioni negative e intollerabili oltre ad una devastazione interiore. La pandemia può accentuare ma non esserne causa diretta. La pandemia, inoltre, a differenza delle precedenti crisi, porta con sé lo scenario inedito delle restrizioni con il violento troncamento dei rapporti con le altre persone e quindi, come conferma una revisione apparsa sul Journal of American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, un aumento di alti tassi di ansia e depressione. Il lockdown ha colpito tutti, in maniera particolare i giovani che si son visti togliere qualunque tipo di “sfogo” a loro naturale bisogno di socializzazione a partire  dalla scuola, snaturata ormai nella didattica a distanza. Ecco qui che si mostra il suicidio come fenomeno sociale: non stupisce, infatti, come i casi di autolesionismo fra i giovani siano aumentati, tesi confermata da Stefano Vicari, responsabile dell’UOC di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’IRCCS Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, che, per la prima volta, ha visto tutti i propri posti letto occupati da tentativi di suicidio. Ovviamente, essendo ancora all’interno della pandemia, non abbiamo dati statistici certi che possano dare una fotografia che rappresenti in maniera compiuta il fenomeno suicidio ai tempi del covid. Di una cosa, però, siamo certi: si possono mettere in atto delle azioni e possono prendersi delle precauzioni per prevenire il suicidio. È stato, infatti, riscontrato un interessante nesso tra suicidio ed emulazione, il cosiddetto “Effetto Werther” che spinge le persone particolarmente suscettibili ad imitare azioni “forti” veicolate dai mass media. Nei capitoli successivi analizzeremo questa fattispecie nel suo complesso, ma basti pensare che, proprio a causa del fatto che il suicidio sia un fenomeno legato alla società, la prevenzione deve partire da tutto ciò che può turbare, anche in maniera capziosa e non veritiera, la stessa. È ad esempio, il caso che spinge nel 2019  l’International Association for Suicide Prevention (IASP)contro una celebre serie americana dal titolo “13 Reason Why” trasmessa in Italia col titolo di “13” che narra la storia di un’ adolescente aspirante suicida la quale registra 13 cassette audio,  indirizzate ognuna ad una persona ritenuta dalla protagonista della serie cruciale per la sua tragica scelta. La serie, ispirata ad un romanzo di Jay Asher, ha riscosso grande successo di pubblico ma anche profonde critiche in quanto, citando le parole di Vladmir Carli, psichiatra e ricercatore presso il Karolinska Institute a Stoccolma, “viola in modo assoluto le linee guida dell’Ordine Mondiale della Sanità, dando  un’aurea  di glorificazione al suicidio, quasi romanticizzandolo”[3].

La domanda che giustamente ci poniamo è quali siano queste linee guida dell’OMS. Ebbene, pubblicate nel 2000, ma aggiornate periodicamente (l’ultima volta nel 2017), dal SUPRE (Suicide Prevention) del Dipartimento di Salute Mentale dell’OMS, tali linee sono dedicate a tutti i mass media individuandone il loro potenziale sia nel rischio di emulazione (copycat suicides),  sia nel loro ruolo di preventori.  All’interno di queste linee guida troviamo indicazioni utili a come presentare notizie di suicidio, innanzitutto lavorando su fonti affidabili e a stretto contatto con le autorità sanitarie, presentare dati essenziali in pagine interne evitando quindi titoli o forme di linguaggio di grande impatto o celebrativo (per non dire sensazionalistico) dell’atto e di chi l’ha commesso, evitando peraltro di descrivere il suicidio in maniera semplicistica o cadendo nei luoghi comuni e presentarlo come una fuga da problemi personali o lavorativi, rendere quindi pubblici indicazioni su numeri di telefono e helpline, fornendo informazioni su fattori di rischio e presentandoli non come qualcosa di ineluttabile ma curabile anche alla luce del fatto che esistono persone e strutture pronte ad aiutare. Altre raccomandazioni vertono nel non diffondere foto o video di chi si è suicidato e di non fornire eventuali link ai profili social di chi ha commesso l’atto, fare particolare attenzione nel linguaggio quando a suicidarsi è una persona famosa e di essere cauti nell’intervistare una persona che conosceva (o era parente) chi si è suicidato in quanto potrebbe farsi male a sua volta.

Per la complessità del fenomeno del suicidio e anche per il suo carattere sociale, è stata pure istituita una giornata per la prevenzione del suicidio che si celebra il 10 settembre di ogni anno. Una giornata per riflettere sul fenomeno che colpisce tutto il mondo e per cercare di mettere in atto azioni che permettano una diminuzione dei casi di suicidio.  Ma, come affronteremo nel prossimo paragrafo, è interessante fornire anche una “geografia” del suicido, fornendo dati di questo fenomeno in particolari regioni del mondo.

 

  • IL SUICIDIO NEL MONDO

Prima di addentrarci nell’analizzare il fenomeno del suicidio nel mondo, riteniamo opportuno effettuare una piccola digressione sul perché un individuo decide di suicidarsi. Ciò non vuole entrare in contraddizione con quanto espresso nell’introduzione dato che, è utile ribadirlo, ogni suicidio è un caso a sé stante con un ben determinato perché, ma in un’ottica statistica e ancor più dato che il suicidio interessa anche il coinvolgimento di medici e di forze dell’ordine che nei loro rapporti sovente indicano un presunto movente a spingere una persona a compiere siffatto gesto estremo, possiamo individuare un “profilo” del tipico suicida. Nel rapporto del 26 Agosto 2011 intitolato “surveillance for violent deaths. National violent death reporting system, 16 States, 2008” è presente un interessante grafico che qui riportiamo e che analizza le circostanze scatenanti del suicidio prendendo in esame 16 Stati Americani nel 2008.

 Come possiamo vedere, a far da padrone in questa triste classifica sono le malattie mentali e, sempre riferendosi a quando detto da Durkheim e analizzato nel paragrafo precedente, la componente sociale gioca un ruolo fondamentale, sia esso un rapporto col proprio partner o, seppur in misura minore (ma non ci stupisce il risultato per come sopra detto), problemi sul luogo di lavoro o problemi finanziari. Altri fattori di rischio per un suicidio è l’averlo precedentemente tentato o avere a propria disposizione un mezzo per commettere il gesto (non a caso troviamo un tasso di suicidi più alto all’interno di famiglie in possesso di armi da fuoco). Interessante anche il dato tra il 15% e il 40% di chi si suicida lasci un biglietto di addio. Il suicidio è anche risposta ad una malattia non per forza mentale ma anche fisica, magari incurabile o comunque fortemente debilitante e che provoca nell’aspirante suicida la sensazione, a causa della propria non autosufficienza, di essere “peso” per gli altri. È questo ad esempio il caso che spinge soprattutto gli anziani a compiere questo gesto estremo. Anche l’abuso di droga o alcolici o comunque di sostanze che compromettono il lucido giudizio possono essere catalizzatori di pensieri suicidi assieme a fattori estremi di tipo socio-economico quali ad esempio la disoccupazione, vivere in stato di povertà o stato detentivo, l’essere senza fissa dimora o anche a seguito di aver subito azioni discriminatorie o violenze in genere. In tutta questa casistica non possiamo dimenticare anche i fattori legati a credenze o usi di un determinato territorio. Se, infatti, la religione permette in alcuni casi il superamento di forti stati emozionali che potrebbero portare al suicidio, quale, ad esempio, la perdita di un proprio caro (è indicativo il fatto che chi professa una religione che creda nell’aldilà ha meno probabilità di suicidarsi), è anche vero che certe religioni, o comunque letture sui generis e radicali di alcune branche estremiste presenti al loro interno, possono spingere al suicidio come atto eroico (basti pensare ai terroristi islamici).

Un fenomeno, quindi, ampio anche nei perché. Ma, d’altronde, i numeri sono veramente impressionanti e, se proprio non riuscissimo a quantificare il numero assoluto, basti pensare che recentemente l’OMS ha stimato che in media si toglie la vita una persona ogni 40 secondi. E, per avere un metodo di paragone, posti a 100.000 circa le vittime che la pandemia da Covid 19 ha fatto nel 2020, vittime che ci hanno portato a misure eccezionali, il suicidio colpisce ogni anno una popolazione dalle 6 alle 10 volte più numerosa! E, ribadiamo, stiamo parlando di una stima perché, come ammesso dallo stesso OMS nel 2002: “In gran parte del mondo, il suicidio viene stigmatizzato e condannato per motivi religiosi o culturali. In alcuni paesi, il comportamento suicidario è un reato punibile dalla legge. Il suicidio è quindi spesso un atto segreto circondato da tabù e può perciò essere non riconosciuto, erroneamente classificato o deliberatamente sottratto ai registri mortuari”.[4]

Da notare, infine, come testimoniato dallo studio di Gillihand e James “Crisis international strategies”, il suicidio è meno frequente in quei contesti in cui vi siano maturate forme di coesione, con una rete familiare, locale/statale che garantisce assistenza e protezione.

Qui di seguito offriamo una tabella dell’OMS per gruppi regionali e che fornisce i tassi di suicidio nel 2016 (ogni 100.000 abitanti).

Figura 2 Tassi di suicidio nel 2016 (fonte: Wikipedia).

 

Figura 3 Percentuali di suicidio nel mondo (fonte: https://ourworldindata.org/grapher/share-deaths-suicide).

Secondo il rapporto dell’OMS sopra citato, pur se il tasso dei suicidi è superiore nelle Nazioni più ricche, il 71% dei suicidi avviene in Paesi a basso e medio reddito.

Interessante notare come i metodi più comuni per togliersi la vita siano l’impiccagione, l’avvelenamento da pesticidi e le armi da fuoco, queste ultime i metodi più letali come da tabella qui sotto, mentre i pesticidi rappresentano un mezzo facilmente accessibile soprattutto per le aree rurali ed è quindi una soluzione allo studio quella di trovare un metodo per poter far in modo di rendere più difficoltoso l’accesso a questo mezzo.

Figura 4 Tasso di Mortalità per metodo di suicidio (fonte: Wikipedia).

Sotto la lente dell’OMS, come riportato da “La Repubblica”, è lo Sri Lanka che è riuscito a ridurre del 70% i numeri di suicidi salvando, secondo alcune stime, 93 mila vite in 10 anni. Un caso simile di riduzione del fenomeno dei suicidio si riscontra in Finlandia passando da 30 a 18 suicidi ogni 100.000 abitanti con un triste primato tra i giovani tra i 13 e i 19 anni. Ciò è avvenuto grazie ad una sistematica azione di governo che ha praticamente raddoppiato il supporto psicologico contro la depressione. Il Sud-Est Asiatico, invece, gode di una vera “maglia nera” per quanto concerne il suicidio, e se la Corea del Sud, grazie al bando dell’erbicida “Paroquat”, è riuscita a dimezzare in un anno i suicidi per avvelenamento, Cina e India hanno il maggior numero assoluto di suicidi, rappresentandone oltre la metà del totale. In Giappone, inoltre, si parla addirittura di un “allarme suicidi” avendo registrato in un solo mese del 2020, secondo un reportage dell’emittente USACNN da Tokyo, più suicidi (2.153) che morti per Covid19 fino a quel momento da inizio pandemia (2.050). Peraltro, queste zone sono caratterizzate anche da una prevalenza di suicidi del sesso femminile (a differenza di quanto detto) con la Cina che rappresenta l’unico Paese in cui il rapporto tra i due sessi è addirittura invertito. Ciò si spiegherebbe col fatto che la situazione femminile in questi Paesi sia ancora ben lontana dagli standard occidentali. La pandemia ha inoltra aumentato l’insorgenza di malattie mentali maggiormente sulle donne (27%) che negli uomini (10%).

Nel successivo paragrafo concentreremo, tirando le somme dei dati offerti fin qui in questo capitolo, la nostra attenzione sul fenomeno del suicidio nei giovani.

 

  • IL SUICIDIO NEI GIOVANI

Come detto nei precedenti paragrafi, il suicidio nei giovani è la seconda causa di morte dopo quella avvenuta per cause accidentali. Dai dati Istat su circa 4.000 suicidi l’anno compiuti nel nostro Paese, ben il 5% è effettuato da giovani sotto i 24 anni. Qualcuno potrebbe sempre “sminuire” il dato pensando che il 5% sia qualcosa di irrisorio, ma dietro questa percentuale c’è un’immensa e complessa sofferenza che conduce un giovane italiano ogni due giorni a togliersi la vita.

Anche qui il senso comune vede nel giovane che commette un atto estremo una persona gravemente compromessa psicologicamente o, come tabelle precedentemente offerte, malato mentalmente, eppure, come peraltro affermato da un articolo del Dottor Emiliano Alberigi apparso sul sito “gruppochimico.it”, “il suicidio in adolescenza non è questione di psicopatologia”.

La prima causa, o meglio la prima predisposizione al suicidio nel mondo dei giovani sta proprio nel loro essere giovani in quanto il periodo adolescenziale rappresenta un momento critico nello sviluppo dell’individuo che comporta diversi aspetti quali il raggiungimento di una nuova identità in cui “l’arido vero”, per usare un’espressione tipica del Leopardi, prende il posto di quel mondo illusorio e immaginifico dell’infanzia. Inoltre l’adolescenza innesca un processo di abbandono, meglio separazione, dai genitori attraverso l’autodeterminazione che avviene anche attraverso cambiamenti del proprio corpo con nuovi impulsi sia sessuali che aggressivi. Anche qui, comunque, è sempre difficile poter dare una chiara definizione del perché un giovane tenta il suicidio, entrando in gioco dinamiche complesse e a volte creando un contesto in cui i “perché” sono molteplici che possono andare da un isolamento sociale se non addirittura l’essere vittima di bullismo o condizioni inerenti il gruppo familiare come ad esempio l’assenza o l’abbandono da parte di un genitore, precedenti suicidi in famiglia o presenza nel nucleo familiare di disturbi psichiatrici o anche, come tristemente noto dalle cronache, violenze domestiche anche a carattere sessuale.

Sicuramente il primo “pensiero” che può essere catalizzatore di pensieri suicidi è la visione del futuro. Il giovane progetta un futuro per sé ma se questi progetti, per una serie di ragioni, non vanno in porto, vi è una disperazione per il futuro. In questa delicata fase è importante il ruolo del genitore e della scuola a saper pensare e progettare assieme al giovane il proprio futuro, contribuendo a ridurre sentimenti di insicurezza e angoscia oltre ad evitare di nutrire nel giovane forti aspettative, magari piegate più sulla gratificazione del genitore che la vera felicità del giovane. Bisogna anche inculcare una vera “cultura del fallimento” non come qualcosa di negativo ma, anzi, come importante momento di crescita. È indicativa, infatti, la disperazione nel futuro nel momento di un fallimento. La frenetica società di oggi impone la perfezione dimenticando che la perfezione è solo un ideale chimerico. Gli stereotipi della società sono aspettative prive di ogni fondamento, ma che purtroppo hanno creato dei modelli che, se non seguiti alla perfezione, citando Edoardo Bennato, “ti fanno fuori dal gioco”. Ed ecco che entra in campo il modello di una laurea prestigiosa conseguita nei tempi corretti, la costruzione di una famiglia, il trovare un lavoro ben remunerato. Basta una sola virgola a differire da questo “paradigma” imposto dalla società, che la società stessa, come moderna lettera scarlatta, impone il marchio del fallimento. E da questa forte “emozione” potrebbe esserci l’infausto esito del suicidio. Qui si spiega anche come molti suicidi avvengono nel contesto universitario e, forse, il miglior modo per chiudere questo primo capitolo su una visione globale del suicidio è una lettera apparsa sul social Network Facebook nei giorni successivi al suicidio di una studentessa ventinovenne nel campus universitario di Fisciano. In questa lettera, carica di pathos, viene riassunto quanto fin qui detto sulla complessità del fenomeno:

“[…] Io non so perché ieri una ragazza 29 anni che un tempo studiava medicina ha deciso di togliersi la vita, di lanciarsi nel vuoto, ma so che all’università devi incontrare opportunità, […], non devi incontrare la morte. E se la incontri, se la scegli qualcosa non ha funzionato […]. Non funziona che l’imprecisione è un tabù, che lo devi dire a bassa voce che sei fuoricorso, che su di noi scommettono tutti, genitori, fratelli, parenti, amici, scommettono sul ‘tanto tu sei bravo’, e come glielo dici che non sei bravo. […] Ma smettetela di pensare che è semplice, che siamo cavalli di razza e vinciamo sempre, che tanto siamo bravi, non siamo bravi, siamo imperfetti, corriamo ognuno a una velocità diversa perché ognuno si accudisce il suo tempo e i suoi fallimenti e se tifate per noi solo continuandoci a dire di correre correre correre non ce la facciamo più, rischiamo di cadere nel vuoto, in una mattina di Gennaio e farci male sul serio. […] ‘Everyone you meet in fighting a hard battle. Be kind, always’. Sii gentile, sempre”.

  

CAPITOLO 2: LA VISIONE DEL SUICIDIO NELLA STORIA E L’ESEMPIO EMBLEMATICO DI LUIGI TENCO

2.1 IL SUICIDIO NELLA PSICOLOGIA E NELLA FILOSOFIA

Il suicidio è stato ed è sicuramente uno dei temi più importanti a cui la filosofia, e le discipline ad essa collegate, ha sempre posto molta attenzione. Nell’analisi dell’evoluzione storica della nostra civiltà, non possiamo non sottolineare il fatto che la visione del suicidio si sia di volta in volta modificata. Nell’antica Grecia, infatti, una società basata sui valori della guerra  e della virtù intesa come kalòs kai agathòs (bello e buono), il suicidio viene inteso anche come atto eroico nel momento in cui si muore in nome della patria, per non farsi catturare dai nemici o comunque in ogni aspetto della vita bellica.

Nella mitologia è presente un celebre suicidio d’amore, ovvero Didone (Regina di Cartagine) che si toglie la vita dinnanzi alla partenza dell’amato Enea. Ma, aldilà di questa meta–storia, non possiamo non citare il contributo che ha dato la filosofia antica sul suicidio, uno fra tutti lo Stoicismo che vede nel suicidio un mezzo da utilizzare nel momento in cui l’uomo non può più esercitare la virtù. Il suicidio diventa quindi l’ultimo spiraglio di virtù a cui si può affidare l’uomo. È emblematico, a tal proposito, l’esempio del filosofo Seneca che, ordinato di togliersi la vita dall’Imperatore Nerone, del quale ne fu precettore, si tagliò le vene è morì dissertando di filosofia. Nello stesso periodo Petronio, che non era stoico ma più vicino agli Epicurei, si tagliò le vene ma il suo suicidio fu accompagnato da danze e divertimenti con, a volte, anche il tentativo di suturare le ferite provocate per poi riaprirle. Con l’avvento del Cristianesimo, il suicidio da strumento di virtù divenne strumento di abominio e grave peccato contro la natura umana. Lo stesso Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, pone all’Inferno coloro che si macchiarono di suicidio con la legge del contrappasso che li vede trasformati in piante, creature inferiori secondo la teoria aristotelica rispetto alla natura umana che essi rifiutarono.

Ci si permetterà un salto temporale, alla luce del fatto che non è questa carrellata lo scopo principale della nostra trattazione, per concentrare l’attenzione sulla visione moderna e contemporanea del suicidio.

Uno fra i massimi filosofi dell’800 che trattò il tema del suicidio fu Schopenhauer. Una filosofia con connotazione fortemente pessimista e in cui, a primo acchito, il suicidio potrebbe giocare un ruolo per il raggiungimento del nirvana, fine ultimo a cui l’uomo può propendere. Ma ciò entra in contrasto con  l’idea del filosofo il quale vede nel suicidio non una via di liberazione ma anzi l’affermazione della nostra schiavitù rispetto alla volontà. Suicidarsi non è un rifiuto alla vita e alla volontà, ma un rifiuto ad un tipo di vita. Suicidarsi è, quindi, l’affermazione della volontà, il desiderio di una vita diversa che ancor più fa oscillare il pendolo della nostra esistenza fra il dolore e la noia.

Fin qui abbiamo esposto la visione del suicidio solo dal punto di vista filosofico o religioso. Come abbiamo visto nel primo capitolo, è solo nell’800 con Durkheim  che il suicidio viene posto sotto l’ottica della sociologia, legando l’azione individuale al contesto collettivo. Il rapporto tra noi e l’ambiente che ci circonda non è, quindi, collegato, ma ambedue le parti giocano un importante ruolo di influenzamento. Possiamo dire, in un certo senso, che Durkheim porti alle estreme conseguenze quel “disagio della civiltà” posto in essere da Freud.

Tutt’oggi la visione del suicidio è molto contrastante e spesso, dinnanzi a siffatto evento si apre un ampio dibattito. È interessante, seppur qui cercheremo di riassumere il tutto in poche righe, analizzare le posizioni antitetiche che si riscontrano all’interno del dibattito su un tema di bioetica su una particolare forma di suicidio quale l’eutanasia. Se da un lato, infatti, troviamo gli assertori della libertà di poter fare del proprio corpo qualunque cosa, anche privarsi della propria vita, dall’altro lato, soprattutto negli ambienti ecclesiastici, si sostiene che, pur riconoscendo all’uomo il libero arbitrio e la libertà di poter compiere delle azioni, quella del suicidio non è una libertà concessa perché la facoltà di porre termine una vita non spetta all’uomo ma a Dio. Da queste posizioni sono scaturiti ampli dibattiti ogni qual volta casi di eutanasia sono stati portati all’attenzione dell’opinione pubblica tra cui, ricordiamo, il caso di Piergiorgio Welby o il recentissimo caso di dj Fabo. Lo stato italiano ha tutt’oggi un  grosso vuoto giuridico su tale materia e il processo Cappato, a seguito dell’ultimo episodio citato, può essere un’importante input per poter legiferare secondo o una o un’altra posizione. La domanda che viene posta è se vi è un diritto nel togliersi la vita. Il dibattito resta aperto[5].

 

2.2 IL SUICIDIO NELLA STORIA E NELLA LETTERATURA

Oltre agli esempi portati nelle precedenti pagine, è utile dedicare uno spazio a suicidi “storici”, anche per toccare con mano tutto il contesto tragico in cui ruota tale atto. Il suicidio per eccellenza nell’antichità, seppur a seguito di una condanna e morte, fu quello di Socrate. Di questo atto abbiamo notizie attraverso Platone, suo discepolo. Era il 399 a.C., la politica ateniese, a seguito della sconfitta della guerra del Peloponneso, era allo sbando. Socrate, uomo oggettivamente riconosciuto di grandi virtù,  viene accusato di una colpa “stupida” se si pensa alla grande libertà della Atene democratica: quella di corrompere i giovani attraverso i suoi insegnamenti e di aver cercato di introdurre nuove divinità. L’infimo stato in cui era caduta la politica ateniese, soggiogata dalla demagogia, aveva trovato in Socrate il capro espiatorio per eccellenza. La condanna, quindi, non si fece attendere. E Socrate, seppur numerosi suoi discepoli lo avevano invitato a scappare dalla città, nel virtuoso rispetto delle leggi dello Stato, si consegnò e bevve volontariamente la cicuta.

Sempre nell’antichità, ma di diverso stampo, sono ascrivibili due suicidi di due personaggi importanti: Annibale e Cleopatra. Ambedue si sono resi protagonisti di due momenti fondamentali della storia romana, ovvero la Guerra Punica e la Battaglia di Azzio. Usciti sconfitti, ambedue si tolgono la vita per non essere catturati dal nemico. Similmente un siffatto gesto viene compiuto da Catone l’Uticense all’indomani della sconfitta di Farsalo  in nome della libertà che sarebbe stata persa a causa della vittoria di Cesare su Pompeo (lo stesso Dante, in elogio a tale gesto, metterà Catone alle porte del Purgatorio).

Anche la letteratura non è scevra di importanti riferimenti al suicidio. Uno fra tutti, come analizzato nel primo capitolo, è sicuramente l’opera di Goethe “i dolori del giovane Werter”, un romanzo che culmina con la morte per suicidio del giovane protagonista e da cui, a seguito di numerosi suicidi verificatisi subito dopo la pubblicazione del romanzo, prende il nome quel fenomeno di emulazione del suicidio che è “l’effetto Werter”.

Anche l’Italia vanta una celebre opera  che tratta il tema del suicidio, in questo caso  tragico e a seguito di disillusioni politiche, ovvero  “le ultime lettere di Jacopo Ortis“ di Ugo Foscolo.

Nel XX secolo il suicidio più celebre anche per i risvolti storici che esso comportò fu quello di Adolf Hitler, cancelliere della Germania Nazista e fautore di quelle azioni che portarono allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Questo fu un suicidio politico avvenuto alla fine di Aprile del 1945 quando ormai la guerra stava sempre più consacrando come vincitori gli Alleati e l’Armata Rossa era ormai quasi dentro Berlino. Hitler, a differenza di molti gerarchi nazisti che si diedero alla fuga, decise di rimanere nella capitale tedesca  confidando in un miracoloso sovvertimento della situazione grazie a presunte armi segrete. Quelle armi non videro mai la luce (o, se la videro, non erano abbastanza efficienti) e Hitler, preso atto della fine imminente, si tolse la vita con un colpo di pistola per non farsi imprigionare dai nemici. Stessa sorte toccò ad altri gerarchi nazisti tra i quali il già citato Goebbels, Himmler, e anche Göring, capo della Luftwaffe  che, mediante il suicidio, riuscì a scappare la notte prima della condanna a morte inflittagli nel processo di Norimberga.

Anche il mondo dello spettacolo non è esente da episodi di suicidio, tutti quasi sempre legati a episodi di depressione a causa di ritmi frenetici o della altalenante celebrità. Sicuramente il caso più famoso, anche se avvolto da mistero, è quello di Marilyn Monroe. Ha fatto, comunque, molto scalpore ultimamente anche il suicidio di Robin Williams, il celebre attore che si tolse la vita a seguito della scoperta di una malattia terminale e fortemente debilitante (molto simile al caso italiano di Alighiero Noschese). Altri suicidi hanno investito il mondo della musica tra i quali, oltre a Luigi Tenco di cui a breve tratteremo, la compagna di lui Dalida, ma anche la cantante romana Gabriella Ferri o, recentemente, Withney Houston.

La stessa musica  ha comunque trattato  il tema di suicidio. Ricordiamo due esempi fra tutti: “Un Uomo In Frak” di Domenico Modugno  e “La Ballata dell’amore cieco” di Fabrizio De André. Questi due ultimi esempi saranno maggiormente trattati nell’ultimo capitolo alla luce del fatto che lo stesso Modugno fu “vittima”, per certi versi “tangenzialmente”, di quell’alone lasciato dal suicidio di Tenco e De Andrè scrisse la canzone l’anno prima di quel Sanremo ’67. Al momento ci limitiamo a dire che la prima è ispirata a una storia vera, un fatto di cronaca che vide come teatro la Roma deli anni ‘50, un suicidio di un uomo dell’alta società a causa dell’amore. Il suicidio per amore è anche tema della canzone di De Andrè dove la donna manipolatrice rende schiavo d’amore il proprio amante accecato dall’ardore, facendogli compiere prima l’omicidio della madre e poi l’estremo atto del suicidio tagliandosi i polsi, un atto mosso da stupida cecità perché nei fatti la donna manipolatrice non ha mai ricambiato l’amore dell’amante ormai morto.

 

2.3 BIOGRAFIA DI LUIGI TENCO

Luigi Tenco nacque nel 1938 in un paesino in provincia di Alessandria ma, all’età di 10 anni, a seguito della morte del padre, si trasferisce vicino Genova. Sin dalla giovane età, Tenco apprezza fortemente la musica, soprattutto il jazz e la musica americana dell’epoca, prendendo lezioni di pianoforte e, da autodidatta, imparando a suonare la chitarra, il sax e il clarinetto. Già a 15 anni fonda il suo primo complesso jazz in cui è presente anche fra i  componenti Bruno Lauzi.  Successivamente suonerà assieme a Umberto Bindi, Gino Paoli e Fabrizio De André. Nel 1959 entra nella Dischi Ricordi incidendo, tra il 1959 e il 1961, diversi 45 giri come cantante, nascondendosi dietro pseudonimi. In questi anni fa la spola tra Genova  e Milano, frequentando personaggi della nuova canzone che stava andando sempre più ad affermarsi (tra tutti ricordiamo Giorgio Gaber). Nel 1962 esce il suo primo Lp intitolato “Luigi Tenco”. Questa raccolta viene pesantemente censurata dalla Rai, salvandosi solo le canzoni “Angela” e “Mi sono innamorato di te” che, comunque, non circolarono molto negli spazi musicali. Viene, però, notato dal regista Luciano Salce che lo vuole protagonista del film “La Cuccagna”. Questi primi lavori, pur non rendendolo popolare, trovano riscontro negli ambienti studenteschi e tra i più sensibili alle novità nel campo musicale, mentre la critica comincia a definirlo un cantante scomodo, talentuoso ma troppo polemico e politicizzato (cosa alquanto esagerata in quanto Tenco era uno fra tanti giovani di sinistra che a breve avrebbero fatto la storia di fine anni ‘60). Aldilà di ciò, Tenco continua la propria produzione sulla linea comune di molti altri di dare alla canzone contenuti più reali e più impegnati. Fino al 1965 il cantautore vive un periodo importante, scrivendo canzoni per sé e per altri e cambiando anche Casa Discografica passando alla Saar dove pubblica un 45 giri di protesta che rappresenta una vera svolta nella sua produzione. Nel  1965, la partenza per il servizio militare coincide con la pubblicazione del suo secondo album, anch’esso intitolato “Luigi Tenco”, dove vi sono canzoni quali “Vedrai Vedrai” e “Ho capito che ti amo”. Finita la ferma, nel 1966, compie il grande passo firmando un contratto discografico con la celeberrima Rca e trasferendosi a Roma dove ormai la scuola genovese sembra lasciare il posto al nuovo fenomeno dei gruppi Beat. Qui trova un ambiente stimolante divenendo amico di Lucio Dalla. In breve tempo il nome di Tenco inizia sempre più a divenire popolare, e, seppur nel Novembre di quell’anno esce il suo terzo album dal titolo “Tenco” (in cui sono presenti canzoni quali “Lontano Lontano” e “Un giorno dopo l’altro”) che riscuote un modesto successo, la Rca progetta per il cantautore un futuro di successo, iscrivendolo al Festival di Sanremo nel 1967 che sarebbe dovuto essere il suo trampolino di lancio.

Prima di addentrarci nell’analisi dell’esperienza sanremese che culminò con la nota tragedia del suicidio, è utile analizzare la figura di Luigi Tenco come cantautore attraverso le sue opere, nonché un’analisi sul contesto in cui avvenne il suicidio.

 

2.4 ANALISI DELLA DISCOGRAFIA DI LUIGI TENCO

Luigi Tenco viene considerato uno dei primi veri poeti della canzone italiana. Seppur la sua carriera è paragonabile ad una meteora, le sue opere hanno lasciato una traccia indelebile. Sono opere che parlano di vita, che danno voce all’inquietudine giovanile in un’epoca che vedrà la gioventù protagonista nelle proteste del ’68.  Rappresenta anch’egli, assieme a tanti altri di quell’epoca, uno spartiacque tra la vecchia e la nuova canzone italiana. Ma, ancor di più, il suo suicidio rappresenta la vera cesura tra un mondo illusorio del prima e lo scontro della realtà del dopo. Nella sua scrittura musicale e nella sua interpretazione si avvertono forti gli echi della canzone americana commisti ad un testo secco  e pungente di romanzieri e poeti.

La canzone che certamente più di tutti rimanda la figura di Luigi Tenco è quella che presentò, in coppia con Dalida (la famosa cantante francese con la quale ebbe una relazione), in quel Sanremo in cui trovò la morte, ovvero “Ciao Amore Ciao”. Il testo della canzone è tutto un programma: una pesante denuncia sociale sulle differenze socio-economiche tra chi abita la campagna e chi abita la città. Gli anni ’60, d’altronde, rappresentano per l’Italia un forte momento di migrazione dalla campagna verso la città. Questa migrazione nasce dal bisogno di una vita non appesa al filo della fertilità o meno della terra, degli agenti atmosferici e di tutto ciò che compone la produzione agricola. Nella canzone di Tenco, infatti, la prima parte descrive questo vivere alla giornata dove bisogna “guardare ogni giorno se piove o c’è il sole, per sapere se domani si vive o si muore”. Da qui il desiderio di partire verso l’ignoto, la chimera inseguita da molti di trovare ricchezza nella città. Una chimera che si segue anche al costo di sacrificare la vita passata e lasciare dietro alle spalle tutti i propri affetti, “dire addio al cortile, andarsene sognando”. Purtroppo, e la storia di tutte le migrazioni di ogni epoca ce lo testimonia, non sempre il sogno di una vita migliore si avvera. E quando non si avvera, il tutto diventa un incubo. Il migrante che arriva in città si trova spaesato, si sente nessuno in un mondo di luci e frenetico. Riprendendo la canzone, di colpo si saltano 100 anni passando dai carri nei campi agli aerei nel cielo. Siamo dinnanzi al disagio della civiltà di freudiana memoria  in cui il migrante è posto in una morsa dalla società progredita, una morsa che lo fa impazzire, lo fa pentire di essere andato in città ma al contempo lo disintegra perché non ha più la possibilità di tornare indietro. La canzone di Tenco, infatti, descrive perfettamente (e qui la denuncia) questo status:  “non saper far niente in un mondo che sa tutto, e non avere un soldo nemmeno per tornare“. Ecco qui la denuncia  della politica dello scarto in una società tutta dedita al profitto e ignara del benessere psico-fisico di ciascun essere umano. Una società votata al mero progresso economico a cui poco importa di chi resta indietro. Una società, per essere estremi, darwiniana in cui vige la lotta del più forte mentre i deboli sono solo degli scarti da buttare via. Un tema questo che, a distanza di 50 anni, è più attuale che mai. Lo troviamo nelle nuove migrazioni, nella fuga dei cervelli, ogni qualvolta una singola persona è costretta a lasciare le proprie radici per inseguire una chimera che, quando non si avvera, stritola quell’uomo stesso. Quale accoglienza, quindi, avrebbe potuto trovare una siffatta canzone a Sanremo? La risposta la conosciamo tutti, ma il paragrafo successivo ci permetterà di capire il perché di tale risposta.

2.5 IL CONTESTO DEL SUICIDIO DI LUIGI TENCO: IL FESTIVAL DI SANREMO

Il Festival di Sanremo è senza ombra di dubbio uno dei più importanti e longevi festival musicali al mondo, il più importante nel panorama musicale italiano. La prima edizione si ebbe nel 1951 all’interno del salone delle feste del casinò di Sanremo, un evento voluto per incrementare il turismo nella cosiddetta “stagione morta”. A trionfare fu Nilla Pizzi con “Grazie dei fiori”. Questa edizione fu accolta molto freddamente sia dalla stampa che dal pubblico che lo considerò un evento come tanti altri. La seconda edizione iniziò a ricevere maggior riscontro. Fu, però, la quinta edizione a piantare il seme di quell’evento nazional popolare che è oggi. Fu proprio questa la prima edizione trasmessa in diretta Radio Televisiva dal programma nazionale con la finale trasmessa in Eurovisione. Per comprendere l’importanza che stava acquisendo il festival, basti pensare che nel 1956 si tenne la prima edizione dell’Eurovision Song Contest ispirato al Festival di Sanremo. Queste prime edizioni furono caratterizzate dalla canzone tradizionale italiana i cui temi ben poco si discostano da Dio, Patria e Famiglia. Era infatti un’Italia che usciva dal secondo conflitto mondiale, che voleva rinascere attraverso la musica e riunirsi attorno a valori che avrebbero trovato l’approvazione di tutti ma che fecero della canzone italiana un qualcosa di poco apprezzato. Per iniziare ad avere i primi scricchiolii di questo monolitico sistema, si dovettero attendere canzoni come “Papaveri e Papere” (satira rivolta alla Democrazia Cristiana) e “Canzone da due soldi”. Ma la vera svolta si ebbe nel 1958 con la vittoria di Domenico Modugno con la canzone “Nel blu dipinto di blu” dove si ebbe quella condizione di autore-interprete e l’affermarsi dei cosiddetti “urlatori” che ebbero la meglio anche nel ’59 con lo stesso Modugno e nel 1960 con la vittoria di Renato Rascel e Tony Dallara con la canzone “Romantica”. Negli anni ’60 a partire dal 1963 fino al 1967 si ebbe la cosiddetta “Era Bongiorno” essendo state tutte queste edizioni condotte da Mike Bongiorno. Furono gli anni in cui parteciparono cantanti del calibro di Mina, Adriano Celentano, Bobby Solo, Gino Paoli e i gruppi Beat. La vittoria più importante da attenzionare in questo periodo fu quella di Gigliola Cinquetti nel 1964 con “Non ho l’età” (con la quale vinse anche l’Eurovision  Song Contest dello stesso anno). Piano piano incominciarono ad apparire sul palco anche canzoni che trattavano temi sociali e la contestazione. Basti pensare che nel 1966  Adriano Celentano presentò “Il ragazzo della via Gluck”, feroce denuncia verso l’urbanizzazione a tutti costi e che fu subito eliminato dalla competizione. Fu nel 1967 che gli intenti rivoluzionari dei giovani furono presenti in massa grazie ai brani “La rivoluzione” di Gianni Pettenati e “Proposta” de I Giganti. Nel 1967 fu anche il Festival in cui partecipò Luigi Tenco e in cui vi trovò la morte per come analizzeremo nel prossimo paragrafo.

 

2.6  27 GENNAIO 1967 – IL SUICIDIO

Il Festival di Sanremo nel 1967 fu la diciassettesima edizione della competizione canora e si svolse all’interno del salone delle feste del casinò di Sanremo dal 26 al 28 Gennaio 1967. Fu vinta da Iva Zanicchi e Claudio Villa con la canzone “Non pensare a me”.

Ma più che pensare alla canzone vincitrice, questo Festival sarà ricordato per il suicidio, avvenuto nella notte tra il 26 e 27 Gennaio, di Luigi Tenco. L’ultima apparizione pubblica sarà proprio sul palco sanremese nella sera del 26 per cantare la canzone “Ciao Amore Ciao”. A quei tempi nel Festival si usava presentare la canzone da due artisti separatamente, per cui questa canzone fu anche cantata da Dalida.  L’esibizione di Tenco fu certamente minata dall’assunzione di dosi massicce di tranquillanti e alcolici per sedare la grande agitazione che aveva. Ciò portò il brano a non essere ammesso alla serata finale, classificandosi al dodicesimo posto e fallire anche il ripescaggio. La comunicazione di tale pessimo risultato a Tenco scosse profondamente l’artista mentre Dalida accettò  il risultato invitando addirittura Tenco ad un brindisi. Dopo di ciò, Tenco se ne andò contrariato. Da questo momento vi sono solamente ricostruzioni  su informazioni abbastanza frammentate. Secondo una di esse, Tenco si recò nella sua stanza, la 219, all’Hotel Savoy dove effettuò due telefonate, l’ultima delle quali terminata all’una di notte. Alle 2:10 del 27 Gennaio fu rivenuto il corpo senza vita del cantante. Non si sa chi fu il primo a rivenire il corpo, se l’amico Lucio Dalla, che alloggiava nella camera accanto, oppure Dalida che informò la polizia alle 2:45. Il Commissario Arrigo Molinari, ancor prima di compiere le indagini e di recarsi sulla scena del crimine, comunicò all’ANSA che Luigi Tenco si era suicidato. Nella stanza venne ritrovata l’arma e un biglietto in cui vi era scritto la seguente: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona la Rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi” il corpo fu fatto portare via e il caso subito archiviato come suicidio. Tale gesto, seppur tragico, determinerà il successo sia della canzone che del cantante: Luigi Tenco verrà consegnato al mito non tanto per la prematura morte e per i tanti interrogativi aperti intorno ad esso, ma per la riscoperta delle sue canzoni di cui era interprete e autore e che godranno negli anni una sempre più crescente popolarità,  prove ne sono le tanti reinterpretazioni di diversi artisti. Seppur una meteora, Tenco rappresenta una cerniera tra il vecchio e il nuovo modo di fare canzone dando corpo a quelle inquietudini giovanili che esploderanno nelle proteste del ’68.

Qui è stata offerta una sommaria descrizione dei fatti avvenuti nel Gennaio del ’67, nel prossimo capitolo sarà analizzato il suicidio in sé di Tenco, le sue tante contraddizioni, le molteplice indagini riaperte, e, in ultima analisi, tutto ciò che ha costituito il “Caso Tenco” e l’emblematicità di questo suicidio.

 

CAPITOLO 3: IL CASO TENCO

3.1 L’IMPATTO DEL SUICIDIO SULLA KERMESSE SANREMESE E NEI GIORNI SEGUENTI

 

La morte di Luigi Tenco è stata subito bollata come suicidio, senza però un esame autoptico. Per molti, quello che passerà alla storia come il “ caso Tenco” rappresenta una tra le inchieste investigative più “pasticciate” mai svolta in Italia. Infatti, si è subito saltato a conclusioni affrettate tanto che fu un flash di agenzia a diffondere la morte di Tenco dando per certa la tesi del suicidio. Peraltro è interessante notare che il primo inquirente a giungere sul posto è Arrigo Molinari, vice dirigente del commissariato di Sanremo, che successivamente finirà nelle liste della P2 (ovviamente neanche questo lavoro vuole saltare a conclusioni affrettate cercando questi nessi, qui si riportano solamente  delle informazioni emesse negli anni ed eventuali conclusioni vengono lasciate a lavori ben autorevoli).

Un altro fatto che ha dell’incredibile è che il cadavere viene subito trasferito all’obitorio e poi riportato in albergo dato che gli investigatori si sono dimenticati di  effettuare dei rilievi fotografici utili per la completezza del fascicolo da trasmettere alla procura. Vi sono anche dei dubbi sulla posizione esatta del cadavere di Tenco emergendo diverse descrizioni che lo vedono o perfettamente parallelo al letto con la testa rivolta verso il fondo, o con il braccio destro piegato verso la schiena, o in posizione supina, ai piedi del letto a questo perpendicolare o seduto in terra e appoggiato con il busto alla sponda del letto ( leggendo il report di Molinari  possiamo vedere che il corpo è in posizione genericamente supina, in posizione trasversale rispetto all’angolo sinistro inferiore del letto con i piedi rivolti verso la porta d’ingresso).

Anche sulla stessa pistola vi sono diverse versioni, trovandosi per il commissario nella mano, per un testimone lontano dal corpo, addirittura in fondo alla stanza,  per un altro in mezzo alle gambe, per un altro ancora sotto il comò (i rilievi riporteranno la posizione della pistola tra le gambe mentre una foto la fa vedere sotto le natiche).

Non vi è accordo neanche per l’orario della morte, dato che il medico legale la pone intorno all’una e trenta, Dalidà all’una e dieci e Molinari all’una e trenta. Inoltre nella stanza di Tenco, oltre la pistola calibro 22 che avrebbe sparato il colpo, si trova un’altra arma ovvero una Walter Ppk.  A completare il quadro vi è il fatto che la sera prima di morire Luigi Tenco aveva vinto circa 6 milioni di lire al casinò mentre nella stanza fu trovato solo un assegno da 100 mila lire di un collaboratore.

Peraltro, come emergerà dalla testimonianza del produttore Paolo Dossena,  si sapeva che Tenco possedeva della armi per autodifesa dichiarando che già 2 volte avevano provato ad ucciderlo.

E del Festival di Sanremo? La kermesse continuò  anche se in maniera tesa e colpita dall’evento, con episodi  simbolici come quello di Caterina Caselli che, durante la seconda serata, lasciò il palco prima della fine della propria esibizione.  A causa del biglietto di Luigi Tenco, Orietta Berti subirà pesanti critiche dalla stampa  anche a distanza di anni. A vincere la competizione saranno Claudio Villa e Iva Zanicchi con la canzone “Non pensare a me”.

A conclusione di questo paragrafo riportiamo un articolo dell’epoca (nello specifico de “La Stampa”) che riporta la notizia del suicidio:

“LUIGI TENCO SI È UCCISO A SANREMO DOPO LA SCONFITTA DELLA SUA CANZONE, QUESTA NOTTE, APPENA FINITO IL FESTIVAL Luigi Tenco si è ucciso a Sanremo dopo la sconfitta della sua canzone. Aveva interpretato, con Dalida, la canzone da lui composta «Ciao, amore, ciao» – Era convinto del successo – Dopo i risultati delle giurie s’era ritirato in albergo senza parlare con nessuno – Alle 2,20 Dalida sale alla sua camera per salutarlo; lo trova sul pavimento: s’era sparato un colpo di rivoltella al capo

Sanremo, 27 mattina. Il cantautore Luigi Tenco si è ucciso con un colpo di rivoltella, stanotte, dopo che la sua canzone «Ciao, amore, ciao» era stata eliminata al Festival di Sanremo. Il suicidio è avvenuto dopo le ore 2 in una camera dell’albergo Savoy. Luigi Tenco ha lasciato una lettera nella quale sarebbe scritto che egli ha sempre creduto nella sua canzone e che gli altri non l’hanno capito. Ha anche lasciato una dichiarazione in carta da bollo del regolare acquisto dell’arma, una Walker PPK calibro 7,65. Tenco si era presentato ieri sera al pubblico del Casinò ed era stato visto da milioni di italiani. La sua canzone era triste, insisteva su quei due versi: «Sapere se domani si vive o si muore». Dalida l’aveva cantata dopo di lui riscuotendo successo. Ma il voto finale aveva relegato «Ciao, amore, ciao» negli ultimi posti. Dopo la sconfitta, Tenco non ha voluto seguire gli amici a pranzo; è tornato subito nella sua camera di albergo. Qui ha chiesto il numero di telefono di un amico romano, che però non è riuscito a trovare. Alle 2,20 la cantante francese Dalida, rientrata dal ristorante, dove aveva cenato con gli amici al termine dello spettacolo, ha bussato alla porta della camera di Tenco per dargli ancora un saluto. La luce era accesa. E’ entrata ed ha trovato il cantautore disteso sul pavimento, già morto. Dalida ha gettato un urlo . E’ accorso Lucio Dalla, che si trovava in una camera vicina. Si è diffuso l’allarme. L’atrio dell’albergo era affollato di cantanti e giornalisti che commentavano i risultati della serata: la notizia si è subito sparsa per tutta Sanremo. Preso dall’emozione, Dalla è crollato su una sedia, singhiozzando : « Tenco si è ucciso! ». Luigi Tenco aveva 28 anni. Era nato a Cassine, in provincia di Alessandria, il 21 marzo 1938. Dopo la maturità scientifica aveva frequentato la Facoltà di ingegneria all’Università di Genova, e qui aveva cominciato a comporre e a cantare canzoni con i gruppi goliardici. Si rese rapidamente noto con alcune canzoni  « impegnate » del genere di « protesta » che oggi è tanto in voga. L’anno scorso aveva scritto e interpretato la canzone di apertura di chiusura delle inchieste televisive del commissario Maigret. Recentemente aveva partecipato, nella squadra di Dalida, alla trasmissione di «Scala Reale». Ieri pomeriggio, nel corso di un’intervista rilasciata a Radio Montecarlo, il cantante era apparso depresso e chiuso in se stesso. Era stato difficile all’intervistatore ottenere da lui qualche dichiarazione. Anche durante la trasmissione di ieri sera, mentre interpretava la sua canzone, i suoi amici non riuscivano a vederlo nella sua forma migliore; e avevano pensato che non si trovasse in buone condizioni di salute.” 

 

3.2  IL “CASO MODUGNO” E L’ESCLUSIONE DELLA CANZONE “MERAVIGLIOSO”

Per meglio comprendere quanto la morte di Luigi Tenco sia stata  “ pesante”, sul contesto sanremese, basti pensare che l’anno successivo venne scartata una delle più celebri canzoni del panorama italiano “Meraviglioso” di Domenico Modugno, il cui testo scritto da Riccardo Pazzaglia, incentra la propria attenzione su una persona che sta per suicidarsi gettandosi da un ponte ma che ad un certo punto, si ferma a compiere quest’atto perché “forse un angelo vestito da passante” lo blocca dimostrandogli come la vita, nelle più piccole cose, sia meravigliosa. Piccole cose quale il sorgere del sole o anche il viso di un bambino.  Ebbene, questa canzone così profonda e che oggi viene sovente cantata anche attraverso una recente cover non potè calcare il palco di Sanremo del 1968, l’edizione successiva al suicidio di Tenco. Fosse le due cose non sono correlate da un rapporto di causa ed  effetto, ma interessante quanto lo stesso Modugno spiegò in un’intervista: “Meraviglioso non fu capito immediatamente, e Renzo Arbore lo ha riconosciuto di recente in una trasmissione televisiva confessando che anche lui si adoperò nella giuria dell’epoca perché la canzone venisse scartata, in quanto non adatta al Festival di Sanremo. Lo stesso Arbore l’ha poi indicata come “la sua canzone preferita attuale”. Lo scalpore di questa esclusione è stato molto grande. E per altro, pur se a Sanremo non era mai entrata una canzone che parlasse, anche se tangenzialmente, di suicidio, (un atto che comunque a fine della canzone non viene compiuto, divenendo, quindi Meraviglioso un inno alla vita), questo tema era stato trattato nel panorama della canzone italiana, addirittura dallo stesso Modugno in “Un uomo in Frack”, dove viene narrata la vicenda di un uomo che si suicida. Nello specifico, come anche lo stesso Modugno ha raccontato, la canzone è ispirata a una vicenda di cronaca nera, ovvero la morte del principe Raimondo Lanza di Trabia del 30 Novembre 1954 che morì cadendo da una finestra (un gesto che è generalmente  visto come un suicidio anche se non è mai stato del tutto chiarito). La canzone fu censurata ma non tanto nel contenuto del suicidio quanto l’ultima parte in cui la commissione di censura vide allusioni a contatti fisici che all’epoca erano considerate immorali. Fu Modugno che in successive reinterpretazioni cercherà di dissimulare il suicidio confondendo l’uomo con il vestito e quindi da uomo in frack a vecchio frack (infatti, pur se quest’ultima espressione è quella corretta che indentifica il titolo della canzone, anche la prima è “ passabile”).

Molto più esplicito, invece, l’anno prima del suicidio di Tenco, fu Fabrizio De Andrè nella descrizione di un suicidio (e anche di un omicidio). Stiamo parlando della canzone “ La ballata dell’amore cieco”. Siamo qui dinnanzi ad una canzone con un ritmo per certi versi parodico e umoristico, in forte contrasto con il contenuto del testo. La parte dell’omicidio che un uomo compie nei confronti della propria madre per come ordinato da un amore non corrisposto, è ispirata dalla poesia “cuore di mamma” del poeta francese Richepin. La seconda parte parla invece di un efferato suicidio in cui l’uomo si taglia le vene nei polsi.

Avendo qui delineato per sommi capi queste tre canzoni nel loro contenuto, ci sembra, opportuno, non avendone fatta un a pedissequa analisi come per le canzoni di Luigi Tenco, per non lasciare il discorso troppo “astratto” e “distaccato” dai vari brani,  si lasciano qui i tre testi delle canzoni.

MERAVIGLIOSO

È vero, credetemi, è accaduto
Di notte su di un ponte
Guardando l’acqua scura
Con la dannata voglia
Di fare un tuffo giù

D’un tratto qualcuno alle mie spalle
Forse un angelo vestito da passante
Mi portò via dicendomi così
E come diciamo?

Ma come non ti accorgi
Di quanto il mondo sia
(Meraviglioso)
Meraviglioso
Perfino il tuo dolore
Potrà apparire poi
Meraviglioso

Ma guarda intorno a te
Che doni ti hanno fatto
(Ti hanno inventato il) mare
Tu dici: “Non ho niente”
Ti sembra niente il sole?
La vita, l’amore

Meraviglioso
Il bene di una donna
Che ama solo te
Meraviglioso
La luce di un mattino
L’abbraccio di un amico
Il viso di un bambino
Meraviglioso

Meraviglioso
Meraviglioso
Meraviglioso

Meraviglioso

Ma guarda intorno a te
Che doni ti hanno fatto
(Ti hanno inventato il) mare
Tu dici: “Non ho niente”
Ti sembra niente il sole?
La vita, l’amore

Meraviglioso
Il bene di una donna
Che ama solo te
Meraviglioso
La notte ora finita
E ti sentivo ancora
L’amore della vita
Meraviglioso

Meraviglioso
Meraviglioso
Meraviglioso

Meraviglioso

 

VECCHIO FRAK

È giunta mezzanotte
Si spengono i rumori
Si spegne anche l’insegna
Di quell’ultimo caffè
Le strade son deserte
Deserte e silenziose
Un’ultima carrozza
Cigolando se ne va

Il fiume scorre lento
Frusciando sotto i ponti
La luna splende in cielo
Dorme tutta la città
Solo va un uomo in frack

Ha il cilindro per cappello
Due diamanti per gemelli
Un bastone di cristallo
La gardenia nell’occhiello
E sul candido gilet
Un papillon
Un papillon di seta blu
S’avvicina lentamente
Con incedere elegante
Ha l’aspetto trasognato
Malinconico ed assente
Non si sa da dove viene
Né dove va
Chi mai sarà
Quell’uomo in frack

Buon nuite bonne nuite
Buon nuite bonne nuite

Buona notte
Va dicendo ad ogni cosa
Ai fanali illuminati
Ad un gatto innamorato
Che randagio se ne va

È giunta ormai l’aurora
Si spengono i fanali
Si sveglia a poco a poco
Tutta quanta la città
La luna s’è incantata
Sorpresa ed impallidita
Pian piano
Scolorandosi nel cielo sparirà
Sbadiglia una finestra
Sul fiume silenzioso
E nella luce bianca
Galleggiando se ne van
Un cilindro
Un fiore e un frack

Galleggiando dolcemente
E lasciandosi cullare
Se ne scende lentamente
Sotto i ponti verso il mare
Verso il mare se ne va
Chi mai sarà, chi mai sarà
Quell’uomo in frack

Adieu adieu adieu adieu
Addio al mondo
Ai ricordi del passato
Ad un sogno mai sognato
Ad un’attimo d’amore
Che mai più ritornerà

La la la la la la la la

 

LA BALLATA DELL’AMORE CIECO

Un uomo onesto, un uomo probo
Tralalalalla tralallaleru
S’innamorò perdutamente
D’una che non lo amava niente

Gli disse: “Portami domani”
Tralalalalla tralallaleru
Gli disse: “Portami domani”
“Il cuore di tua madre per i miei cani”

Lui dalla madre andò e l’uccise
Tralalalalla tralallaleru
Dal petto il cuore le strappò
E dal suo amore ritornò

Non era il cuore, non era il cuore
Tralalalalla tralallaleru
Non le bastava quell’orrore
Voleva un’altra prova del suo cieco amore

Gli disse: “Amor, se mi vuoi bene”
Tralalalalla tralallaleru
Gli disse: “Amor, se mi vuoi bene”
“Tagliati dai polsi le quattro vene”

Le vene ai polsi lui si tagliò
Tralalalalla tralallaleru
E come il sangue ne sgorgò
Correndo come un pazzo da lei tornò

Gli disse lei, ridendo forte
Tralalalalla tralallaleru
Gli disse lei, ridendo forte
“L’ultima tua prova sarà la morte”

E mentre il sangue lento usciva
E ormai cambiava il suo colore
La vanità fredda gioiva
Un uomo s’era ucciso per il suo amore

Fuori soffiava dolce il vento
Tralalalalla tralallaleru
Ma lei fu presa da sgomento
Quando lo vide morir contento

Morir contento e innamorato
Quando a lei niente era restato
Non il suo amore, non il suo bene
Ma solo il sangue secco delle sue vene

 

3.3 IL “CASO TENCO” – L’INCHIESTA DEGLI ANNI NOVANTA, L’ESUMAZIONE DEL CORPO E L’ACCETTAZIONE DELLA TESI DEL SUICIDIO

Negli anni ‘90  vi fu un certo interesse mediatico sulla morte d Luigi Tenco. Tutto ciò nacque da un’inchiesta giornalistica condotta da Marco Buttazzi e Andrea Pomati che riuscirono a scoprire dei particolari inediti e curiosi,  a cominciare dal fascicolo redatto nel 1967  dalla polizia che si credeva perduto a causa del cambio di sede del tribunale di Sanremo con annesso archivio. All’interno di esso si trovarono le fotografie scattate dalla polizia nella camera di Tenco con il cadavere del cantautore con le gambe poste sotto il cassettone della stanza.

Un altro particolare all’interno di questa inchiesta giornalistica  fu l’essere riusciti a rintracciare Giuseppe Bergadano, necroforo che aveva trasportato il corpo di Luigi Tenco e che, per ordine del commissario Molinari,  pur se la salma era già al cimitero, dovette ritornare nell’albergo per scattare le fotografie ufficiali da allegare al fascicolo. Come dichiarò lo stesso Bergadano  «[…] Siamo partiti, siamo andati a prendere questa salma, e c’era la Polizia, siamo stati una mezz’oretta lì poi hanno detto: “Adesso potete muovere la salma e portarla al cimitero” e noi l’abbiamo presa e portata al cimitero. Arrivati al cimitero abbiamo scaricato, come facciamo sempre. Dopo un dieci minuti arriva la Polizia e fa: “Riportate subito la salma al Savoy com’era”. E allora noi li abbiamo seguiti e siamo andati al Savoy, abbiamo messo la salma per terra come era, con i piedi sotto il comò, con la testa appoggiata lì alla testata del letto e siamo stati lì un’oretta».

L’inchiesta  fece raccogliere degli elementi tali da poter chiedere le riapertura del caso presso la procura della Repubblica di Sanremo. Un ulteriore elemento che ifittì la già complicata trama di questo caso e che si pone contraria all’ipotesi del suicidio venne dal giornalista Aldo Fegatelli Colonna  il quale dichiarò di essere in contatto con la fidanzata di Tenco, che non era Dalidà, con la quale il cantautore avrebbe parlato la sera in cui morì,  avendo in mente progetti all’indomani di Sanremo oltre alla volontà del cantautore di sporgere denuncia a seguito dall’esclusione dal Festival. Lo stesso fratello di Luigi Tenco fece pubblicare nel 1992 tre lettere che il cantautore aveva indirizzato alla fidanzata, avvallando quindi le tesi del Colonna.

Fu l’unione delle forze di questi tre giornalisti a portare nel 2002 ad avvalersi della consulenza di Francesco Bruno, noto criminologo, da cui nacque una interessante relazione tecnica su cui venivano elencati tutti i dubbi sulla tesi del suicidio. Alla vicenda, infine, si aggiunse un  importante tassello quando lo stesso Molinari, ovvero il commissario di Sanremo dell’epoca, dichiarò in un’ intervista rilasciata a Paolo Bonolis che su questo caso si sarebbe dovuto fare chiarezza escludendo la tesi del suicidio e parlando di un omicidio collettivo. Per altro Molinari, che si scoprì che apparteneva alla loggia P2,  morirà un anno dopo dall’intervista in maniera non naturale ma a seguito di una rapina per mano di un uomo di 42 anni.

Gli elementi si andavano sempre di più ad aggiungere all’implicata vicenda, tanto da spingere i tre giornalisti Buttazzi, Colonna, e Pomati a sporgere una denuncia per omicidio a carico di ignoti il 27 dicembre 2002.   Il procuratore capo di Sanremo Mariano Gagliano dispose il 12 dicembre 2005 l’esumazione della salma di Luigi Tenco (cosa che avvenne nel febbraio 2006) oltre ad effettuare accertamenti sull’arma del cantautore, sul bossolo trovato nella stanza dove avvenne il suicidio, sulle mani di Tenco e sul biglietto agli atti dell’inchiesta.

Dalle analisi sul corpo emerse l’esistenza di un foro di uscita sulla teca cranica di Tenco, permettendo di giungere alla conclusione che la tesi del suicidio era fondata. Inoltre venne accertato  che il biglietto trovato era stato scritto da Tenco, che il colpo era stato sparato dalla pistola del cantautore e che sulla mano dello stesso era presente una particella di antimonio.  Elementi questi che fecero archiviare il caso  nel 2009.

Seppur la stessa famiglia di Tenco ha affermato di ritenere veritiera la tesi del suicidio, una successiva inchiesta giornalistica del 2013 riaprì quello che ormai era diventato mediaticamente il caso  Tenco. Questa volta a sollevare dubbi sulla tesi del suicidio furono i giornalisti Pasquale Ragone e Nicola Guarneri che affermarono che  l’arma di Tenco non sarebbe mai entrata sulla scena del crimine e che il bossolo ritrovato riporta i segni di un modello di pistola diversa da quella appartenente al cantautore. A tutto ciò aggiunsero degli elementi che infittirono la vicenda, quali l’assenza di residui dello sparo sulla mano di Tenco, la mancanza di testimoni che affermano di aver sentito lo sparo (per altro sul bossolo e sul foro di entrata vi sarebbero tipici segni di uno sparo con l’uso di un silenziatore), l’assenza di micro spruzzi sul dorso della mano destra di Tenco, sulla presenza di una frattura alla mastoide destra, indizio che Tenco possa essere stato tramortito prima di essere ucciso e che le conclusioni medico legali del 2006 andavano messe in discussione per quanto concerne l’attendibilità in quanto non fecero emergere una frattura femorale che Tenco si procurò anni prima.

Da qui la nuova ricostruzione dei giornalisti in cui vedono Tenco non premere il grilletto oltre al fatto che la pistola del cantautore non era li presente, fatto avvallato anche dal verbale delle ore 3:00 in cui fra gli oggetti ritrovati non vi erano elencati ne il biglietto ne la pistola, apparendo solamente nelle fotografie ufficiali che, così affermano gli autori, si trattava di un altro modello che è stato inserito dalla polizia per sostituire l’arma di Tenco. Inoltre, secondo la tesi di Martino Farneti, esperto di balistica, in sede autoptica furono confuse le tracce lasciate da una Ppk (l’arma posseduta da Tenco) con quelle prodotto da una beretta (l’arma che i due giornalisti indicano come usata per la morte del cantautore).

E se pur tale inchiesta fu attenzionata anche dalla televisione nazionale, la procura non ritenne necessario avviare nuove indagini, anche se nel 2015 fu svolto un supplemento di indagine a seguito di una richiesta di apertura depositata da Ragone ma seppur subito chiusa con archiviazione per decisione della procura di Imperia.

Come si può vedere, anche a più di 50 anni da quella notte di gennaio, il caso Tenco è ancora aperto. E sicuramente farà ancora discutere.

 

CONCLUSIONI

Il presente lavoro, scevro dalla volontà di sensazionalismi  e  scoop giornalistici, ha cercato di riportare i fatti legati alla morte di Luigi Tenco. Una morte che ha certamente scosso la sensibilità degli italiani non soltanto per la giovane età e  per la fama del cantautore ligure, ma anche perché  è avvenuto all’interno del Festival di Sanremo, appuntamento che ha sempre riunito milioni di italiani e non solo. In questo scritto si è voluto analizzare non solo il fatto in sè ma anche il contesto e tutto ciò che gli è ruotato attorno. Ingredienti questi che hanno permesso di avviare un altro dibattito anche ai giorni nostri pur come visto nell’ultimo capitolo. Di certo la figura di Tenco rappresenta tutt’oggi un spunto importante per molti cantautori (a questi infatti è dedicato un importante premio musicale quale la targa Tenco) e le canzoni di Tenco, che hanno trattato i disagi di una società in frenetica trasformazione, sono tutt’oggi conosciute e ampiamente ascoltate. Qualcuno potrebbe pensare,  nell’ottica Gucciniana degli eroi che sono tutti giovani e belli,  che a consacrare Tenco e le sue canzoni sia stato proprio questo suicidio. Qualcuno potrebbe controbattere ponendo innanzi   un analisi costi benefici in cui questa fama ha portato un sacrificio estremo (anche se comunque non è un caso isolato dato che anche Gino Paoli tentò il suicidio). L’inchiesta giornalistica che ne è seguita negli anni potrebbe essere additata come sciacallaggio mediatico, ma anche se così fosse, di certo ha trovato ampio pubblico e questa è la prova su come il suicidio di Tenco sia qualcosa di emblematico. È emblematico perché ancora oggi se ne parla, vi sono delle vere e proprie tifoserie fra promotori della tesi del suicidio e di quelli promotori della tesi di omicidio.

A tutto ciò va ovviamente aggiunto il fascino del mistero e delle teorie del complotto in cui certi elementi conducono ad un contesto più ampio. Insomma, siamo dinnanzi ad un fenomeno che va al di là del fatto di cronaca e che meriterebbe ben altri approfondimenti. Ma qui ci si è limitati ad una semplice descrizione del caso Tenco rimandando ad altri scritti gli approfondimenti necessari.

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

  • Aldo Colonna, “Vita di Luigi Tenco”, Bompiani 2017.
  • Club Luigi Tenco (a cura del), In ricordo di Luigi Tenco, Venezia Lido, Ist. tipografico editoriale, 1968.
  • Domenico Massaro, La Comunicazione Filosofica, Volume 3, il pensiero contemporaneo, Paravia, 2009.
  • Emanuele Severino (a cura di), Storia del Pensiero Occidentale, 16 volumi, Mondadori editore, 2020.
  • Émile Durkheim, Il suicidio-L’educazione morale, UTET, 2008.
  • Etienne Krug, World Report on Violence and Health (Vol. 1), Genève, World Health Organization, 2002.
  • Federico Pieri e Daniele Sgherri, Sanremo a 45 giri. La storia del Festival attraverso le copertine di tutte le canzoni partecipanti dal 1951 al 1969, Ergo Sum Editrice per Musica in Mostra, 2020.
  • Gianni Borgna, L’Italia di Sanremo, Arnoldo Mondadori Editore, 1998.
  • Gino Castaldo (a cura di), Il Dizionario della Canzone Italiana, Armando Curcio Editore, 1990.
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  • https://www.treccani.it/
  • https://www.wired.it/
  • Luigi Gagliano, Percorsi di storia 1789-1989 alle radici del presente, Bonfirraro Editore, 2012.
  • OMS, Self-directed violence (PDF), su www.who.int, 2002.
  • P Värnik, Suicide in the world., in International journal of environmental research and public health, vol. 9, n. 3, 2012.
  • Philippe Brunel, Ciao amore. Tenco e Dalida, la notte di Sanremo, Milano, Rizzoli, 2012.
  • William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, edizioni Einaudi, 2014.

[1] Durkheim E., Le Suicide, Parigi, 1897.

[2] Cipolloni D., I suicidi non sono aumentati per la crisi, articolo apparso sul sito Wired.it

[3] Da “La Repubblica”.

[4] OMS, Self-directed violence (PDF), su www.who.int, 2002.

[5] Dibattito che è tornato in auge anche grazie alla recente raccolta firma promossa per un referendum sull’eutanasia.

 


Miriam Calò, nata a Nicosia il 28 Dicembre 1998, si laurea nel 2023 in Criminologia.
Da sempre appassionata ai gialli e alla psicologia, dedica gran parte dei suoi studi nell’approfondimento della psicopatologia forense e profiling e del diritto penale.
Collabora con l’associazione Impavidarte nella creazione di eventi culturali quali il concorso Artistico-Letterario “Impavidarte – la biennale della cultura”.
Nel 2022 vince una borsa premio alla Scuola di Liberalismo di Roma con un elaborato sul movimento Libertarian e nel 2023 viene insignita di una borsa di studio in memoria di Gaetano Martino con un elaborato di fine corso della Scuola di Liberalismo di Messina in cui affronta l’opera di Hannah Arendt.

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