La questione che da il titolo a quest’articolo è stata sempre motivo di confronto fra gli studiosi e di discussione fra i letterati. E non si tratta di un questione nuova, atteso che essa ebbe inizio verso la metà del Cinquecento, quando la corona di Castiglia scelse il dialetto toscano come lingua ufficiale scritta e il dialetto siciliano fu relegato al ruolo di vernacolo popolare. Fu quello il periodo in cui prese il sopravvento il volgare toscano di Dante, Petrarca, Boccaccio. Il dialetto siciliano restò privo del ruolo che aveva rivestito fino ad allora; un ruolo che era “politico”, nel senso di un uso del dialetto negli atti e nei documenti ufficiali, oltre che letterario. In altri termini, fu allora che il dialetto siciliano perse la speranza di diventare “lingua”, se con tale termine intendiamo ciò che insegna la Treccani, cioè il complesso delle parole usate da tutto un popolo come mezzo di espressione, con caratteristiche tali da costituire un organismo sottoposto a proprie leggi fonetiche e morfosintattiche.
Il linguaggio parlato dai siciliani non è mai stato uniforme, né sotto il profilo fonetico né tantomeno sotto il profilo lessicale/sintattico. Basta viaggiare nell’Isola per comprendere come, nelle varie zone della Sicilia, si riscontrano differenze fonetiche, lessicali, morfologiche e sintattiche così marcate da dar luogo a una pluralità di sub-dialetti. Ad esempio: per dire “suo”, un catanese dice so, un trapanese soi, un ennese sùiu. É solo un esempio, ma basta per farci capire che non esiste il dialetto di Sicilia. Esistono, invece, i dialetti siciliani. E i linguisti ne distinguono diversi, a loro volta suddivisi in sottogruppi:
– il dialetto occidentale (suddivisibile in palermitano, trapanese e agrigentino occid.);
– il dialetto orientale (distinguibile in messinese, catanese e ragusano);
– il dialetto centrale (distinto in nisseno, agrigentino orient. e parlata delle Madonie);
– il dialetto pantesco;
– etc.
Si consideri tuttavia che c’è un “substrato comune” a tutti i dialetti siciliani. Questo substrato comune, questo “comune denominatore” fra i dialetti siciliani, affonda le sue radici nel latino. Sappiamo infatti che i Romani dominarono la Sicilia per circa sette secoli a partire dal 241 a.C. In quei secoli il dialetto subì un lungo processo di romanizzazione, cioè assunse le caratteristiche di lingua derivante dal latino. Per questo oggi i linguisti dicono che il dialetto siciliano è un dialetto neolatino o, per meglio dire, “romanzo”. Ed è grazie all’esistenza di questo substrato comune che i siciliani di una zona riescono a capirsi con i siciliani di altre zone della Sicilia. Tutto questo, però, non implica che esista una lingua comune a tutta la Sicilia. Non è corretto, dunque, parlare di “lingua della Sicilia”, di lingua standard, di quella che i linguisti chiamano koinè. Parliamo piuttosto di dialetti della Sicilia, intendendo col termine “dialetto” (cito ancora la Treccani) un sistema linguistico di ambito geografico limitato, che non ha raggiunto autonomia e prestigio di fronte ad un altro sistema accettato come lingua parlata nell’intero territorio. Penso che, chiamare le cose con il loro giusto nome, sia un punto irrinunciabile nella trattazione di qualsiasi argomento. Non è corretto dire che il dialetto è una lingua soltanto perché entrambi adempiono alla funzione di “mezzo di espressione”. É come dire che un treno è un’automobile perché entrambi adempiono alla funzione di “mezzo di locomozione”. Peraltro non è neppure corretto rifugiarsi in argomentazioni del tipo: esiste una “lingua siciliana unica, anche se dotata di varianti lessicali”. Ricordo infatti che le varie parlate della Sicilia sono caratterizzate da impianti sintattici, oltre che fonetici e lessicali, affatto disomogenei. Per dire “sieda”, a Palermo si dice s’assittassi e a Catania mi s’assetta. Per dire “volesse il cielo che venga”, un catanese direbbe macari vinissi e un ragusano pozza veniri. Ripeto: basta ascoltare la parlata dei siciliani nelle diverse zone geolinguistiche della Sicilia, per rendersi conto dell’inesistenza di “un” dialetto siciliano e, ancor più, di “una” lingua siciliana.
Quanto sopra è inconfutabile sotto il profilo linguistico. Sotto il profilo della letteratura, si potrebbe aggiungere qualche fattore in più, ma il risultato non cambia… Molti sono i letterati che, nei secoli, hanno sostenuto la necessità di pervenire a una “lingua letteraria comune”, un “dialetto illustre” adatto alla poesia. Partendo dal Quattrocento, con Claudio Mario Arezzo, per andare a Giovanni Meli nel Seicento, a De Maria nei primi del secolo scorso e, più di recente, al catanese Salvatore Camilleri (da non confondere col romanziere Andrea) e al palermitano Paolo Messina. Tutti questi personaggi hanno, in un modo o nell’altro, vagheggiato il formarsi di una koinè letteraria che consentisse ai poeti di adottare degli standard nell’ortografia, nel lessico, nella morfologia e nella sintassi del dialetto scritto. Cosa che, ad onor del vero, non è mai avvenuta. Anzi, specialmente nell’ultimo secolo, ogni autore ha preferito usare il lessico e la morfosintassi della propria zona d’origine. Il che è un fatto, direi, naturale se si pensa che il dialetto è strettamente legato al luogo d’origine dell’autore. Come si può obbligare un catanese a scrivere s’assittassi invece di mi s’assetta senza chiedergli di tradire la sua parlata? Insomma: standardizzare i vari dialetti per arrivare a una lingua condivisa, significa perdere la ricchezza delle parlate. Ad esempio un’operazione del genere fu posta in essere, a un certo momento della sua produzione poetica, da Ignazio Buttitta dietro le sollecitazioni di Pier Paolo Pasolini. Forse sarà migliorata la comprensibilità dei testi per i lettori non siciliani, ma si è certamente ottenuta un’artificiosa italianizzazione della parlata di quel grande poeta. Perciò mi sento di affermare che, anche sotto il profilo letterario, non esiste una “lingua siciliana” comune. I poeti ragusani scrivono in un modo, i trapanesi in un altro modo, i palermitani in altro modo ancora, e così via. Abbandoniamo dunque la velleità di dire che “il dialetto è una lingua”. Chiamiamo invece il dialetto con il suo stesso nome. Teniamo presente che l’etimo di questa parola è nel greco diàlectos, che vuol dire dialogo, conversazione. Quale genesi più insigne? Non dobbiamo sentirci menomati nel dire che il sicilianu è un dialetto. Non è un demerito! Dobbiamo essere invece orgogliosi del nostro dialetto, come lo sono del loro, ad esempio, i napoletani o i veneti. Ricordiamo a noi stessi e agli altri che il dialetto siciliano, nella sua molteplicità di parlate, è un “dialetto” che vanta otto secoli di letteratura e che è parte integrante del patrimonio genetico e culturale di ogni siciliano. E a nulla vale che esso non sia una “lingua”, come del resto non lo è nessuno dei dialetti d’Italia…
Giuseppe Pappalardo
Tags dialetto lingua sicilianu
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