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Le spese dei gruppi politici e l’incontrollata tecnica del “richiedo-ricevo”

corte dei conti siciliaIn un momento politico particolare come quello che stiamo vivendo, in cui i partiti politici hanno raggiunto il minimo storico di gradimento (circa il 4%) e l’alfiere dell’antipolitica Peppe Grillo si prepara ad entrare in Parlamento affiancato da flotte di deputati e senatori, il virus della maladministration delle risorse pubbliche nell’esercizio di funzioni “politiche” non poteva non contaminare anche i gruppi politici di numerosi Consigli regionali.
Gli scandali che hanno recentemente interessato la gestione finanziaria di importanti partiti politici come la ex Margherita e la Lega, riecheggiando i tratti distintivi della Repubblica di Weimar, hanno rinnovato l’esigenza, più volte avvertita in dottrina, di dotare l’ordinamento di specifiche regole di trasparenza nella gestione dei bilanci dei partiti politici. Anche se tardivamente, il legislatore ha risposto con la legge 6 luglio 2012 n. 96 che all’art. 9 dispone di misure atte a garantire la trasparenza e i controlli dei rendiconti dei partiti e dei movimenti politici. Rimandata (volutamente?) ad altra occasione la questione, altrettanto attuale quanto sentita, sottesa all’attuazione dell’art. 49 della Costituzione con particolare riferimento al “metodo democratico” attraverso il quale i cittadini dovrebbero concorrere a determinare la politica nazionale. Altrettanto omessa dal legislatore è la disciplina su qualsiasi forma di controllo dei bilanci dei gruppi parlamentari e dei gruppi consiliari delle Regioni.
Da qui il convincimento, che serpeggia tra i più, di avere voluto escludere i gruppi politici dai medesimi controlli esterni a cui sono oggi soggetti i partiti politici. Difficile indagare sulla ratio di tale esclusione anche per l’assenza di riscontri negli atti parlamentari. Più facile è invece percepire una diffusa tendenza a mantenere forme più o meno esplicite di autodichìa o di giurisdizione domestica, atteso il naturale incardinamento dei gruppi politici nell’articolazione assembleare. La Camera dei Deputati, in data 25/09/2012, ha infatti deliberato alcune modifiche del proprio Regolamento nella parte relativa ai controlli sui contributi ai gruppi parlamentari. “Allo scopo di garantire trasparenza e correttezza”, si legge nel testo approvato dalla Giunta del Regolamento, i gruppi parlamentari saranno sottoposti al controllo “di una società di revisione legale selezionata dall’Ufficio di presidenza con procedura di evidenza pubblica”. La società dovrà quindi verificare nel corso dell’esercizio la regolare tenuta della contabilità e la corretta rilevazione dei fatti di gestione, esprimendo “un giudizio sul rendiconto”.
Se i gruppi politici presenti in Parlamento sembrano quindi orientati, anch’essi tardivamente, a salire sul treno della trasparenza, quelli che ancora oggi sembrano non avvertire il medesimo richiamo sono i gruppi consiliari delle Regioni. E, non possono certo ritenersi casi isolati gli scandali della Regione Lazio su cui si sono recentemente accesi tutte le tipologie di riflettori. Alle indagini della Guardia di Finanza sono infatti seguite pesanti dichiarazioni della Chiesa e della Corte dei Conti attraverso i propri vertici. Il dato che stupisce, e che lascia tutti basiti, è che ancora oggi, in un contesto di crisi finanziaria secondo solo a quello del ’29 ed in cui si chiedono sacrifici insopportabili alla maggioranza dei contribuenti italiani, sia possibile sperperare risorse pubbliche per fini non coerenti con le funzioni istituzionali alle quali si è chiamati e soprattutto senza alcuna forma di controllo né interno né esterno.
In attesa che, di scandalo in scandalo, l’ordinamento produca i necessari anticorpi per via legislativa ovvero per via regolamentare nel caso in cui si volesse perseguire sulla strada della autodichìa, una riflessione, certamente non esaustiva, sulla natura giuridica dei gruppi consiliari delle Regioni aiuterebbe non poco a comprendere le patologie di cui sono affette queste articolazioni del sistema politico-istituzionale alimentate dalla diabolica tecnica del “richiedo-ricevo” per rendicontare le spese a vario titolo sostenute dai medesimi. In questa direzione, un assist ci viene offerto dal Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana On. Francesco Cascio, secondo il quale “Ci sono spese dei gruppi politici su cui l’ARS non ha alcun tipo di controllo. I Gruppi sono associazioni di diritto privato e l’ARS non può entrare nella gestione dei contributi che ricevono se vengono impiegati in attività a carattere politico”.
Per comodità discorsiva faremo uso del termine “gruppi politici” per indicare sia i gruppi parlamentari di Camera e Senato che quelli consiliari presenti nelle Regioni, e non anche i gruppi consiliari degli enti locali che, notoriamente annoverati nel contesto del potere esecutivo (rectius amministrativo), non godono delle medesime guarentigie costituzionali previste dall’art. 122, comma 4, della Costituzione.

1. La natura giuridica dei gruppi politici
L’indagine sulla natura giuridica dei gruppi politici, con tutti i riflessi che questa implica sulle giurisdizioni, non è di certo semplice e pone più di qualche problema. La dottrina si è già occupata della natura giuridica dei gruppi politici5, adagiandosi sulla posizione più comoda della veste “anfibola” e questo ha indotto, verosimilmente, anche la giurisprudenza ad affrontare l’argomento in modo non esaustivo. In sede di contenzioso del lavoro, la Corte di Cassazione si è occupata della questione, trovando una soluzione volta ad individuare due facce complementari della medesima medaglia: “quella squisitamente parlamentare, in relazione alla quale i gruppi costituiscono gli strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie del Parlamento, come previsto e disciplinato dalle norme della Costituzione, dalle consuetudini costituzionali, dai regolamenti delle Camere e dai regolamenti interni dei gruppi medesimi; l’altra, più strettamente politica, che concerne il rapporto, molto stretto, ed in ultima istanza di subordinazione, del singolo gruppo con il partito di riferimento”. La Corte di Cassazione ha quindi concluso affermando che rispetto a questa seconda faccia “i gruppi parlamentari sono da assimilare ai partiti politici, ai quali va riconosciuta la qualità di soggetti privati”.
Tuttavia, spingersi fino a definire i gruppi politici alla stregua di associazioni di diritto privato, anche se limitatamente alla versione più privatistica dell’attività istituzionale, ci sembra però un azzardo dal quale intendiamo subito dissociarci. Invero, un più attento scrutinio degli indicatori sintomatici ci porta ad individuare certamente delle componenti privatistiche ma soprattutto componenti pubblicistiche.
I candidati alle elezioni, ancorchè designati dai partiti politici, mantengono il proprio status giuridico di semplici cittadini-elettori fino alla fase pre-elettorale, cioè fino al momento della presentazione delle liste elettorali. Il procedimento elettorale trancia il cordone ombelicale con i partiti politici di riferimento, aprendo le porte verso l’istituzionalizzazione dei rappresentanti neo eletti. Il Parlamentare, ovvero il Consigliere, neo eletto, infatti, non è espressione diretta del partito politico ma della lista elettorale che, notoriamente, può anche non essere creata da un partito politico ma da semplici elettori che raggiungono un minimo di firme necessarie per la sua presentazione.
Peraltro, l’art. 49 Cost. secondo cui “I cittadini si associano liberamente in partiti politici per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale” va interpretato nel senso che la concorrenza, ovvero la competizione, non è solo tra cittadini associati in partiti politici ma anche tra cittadini non associati in partiti politici. Se così non fosse la determinazione della politica nazionale sarebbe solo prerogativa dei partiti politici con la conseguenza che tutte le organizzazioni non strutturate in partiti sarebbero ipso iure privi di copertura costituzionale. Corollario di questa lettura dell’art. 49 Cost. è che, non è l’associato al partito X ad usufruire della legittimazione passiva prevista dall’art. 51 Cost. ma il semplice cittadino, che non ha quindi l’onere di presentare la tessera di iscrizione ad un partito politico, ma ha solamente l’obbligo di documentare il possesso dei requisiti previsti dalla legge ordinaria per rivestire una carica di tipo elettivo tra i quali l’iscrizione nelle liste elettorali del comune di residenza.
Indossata la veste istituzionale, il Parlamentare è pienamente parte della più ampia articolazione parlamentare che esercita la propria funzione pubblica per tutta la durata del mandato elettivo. Nulla di privatistico emerge nell’esercizio di detta funzione. Al contrario, l’esercizio della funzione parlamentare si incasella nella più pregnante funzione pubblicistica legislativa che la Costituzione affida al Parlamento nel contesto di un pluralistico e democratico confronto dialettico all’interno delle due Camere.
L’assenza di mandato imperativo garantita dall’art. 67 Cost. contribuisce ad irrobustire la tesi dell’emancipazione dell’eletto dal partito politico di riferimento. Infatti, l’adesione dei Parlamentari ai gruppi politici è automatica solo per le liste elettorali di provenienza e non certo per il partito politico di riferimento, e comunque salva diversa volontà espressa dal Parlamentare in qualsiasi momento di aderire ad altro gruppo o al cosiddetto gruppo misto.
L’emancipazione dell’eletto dal partito politico di riferimento si ripercuote inevitabilmente sulla natura istituzionale e giuridica del gruppo politico. Per i giudici di Pazza Spada “… in via generale il gruppo consiliare non è un’appendice del partito politico di cui è esponenziale ma ha una specifica configurazione istituzionale come articolazione del consiglio regionale, i cui componenti esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato dai partiti e dagli elettori…”.
L’appartenenza ad un gruppo politico, oltre ad essere utile per identificare la linea politica, è necessaria per garantire il buon funzionamento dei lavori parlamentari nel quotidiano rapporto tra minoranze e maggioranze di governo. La Corte Costituzionale ha definito i gruppi parlamentari siciliani “come articolazione della Assemblea Regionale Siciliana e come momento aggregativo strettamente raccordato alle attribuzioni politico-parlamentari dell’Assemblea stessa, presidiate a livello di normativa di rango costituzionale”.
Tuttavia, la vita interna al gruppo politico, come già detto, non si esaurisce in attività tutte riconducibili alla sfera pubblicistica strettamente connessa all’esercizio delle funzioni parlamentari, o consiliari, ma comprende altresì una serie di azioni singole e di gruppo che ineriscono la sfera privatistica. Tipiche sono le attività poste in essere dal gruppo politico fuori dal contesto istituzionale: attività convegnistica, rapporti con il territorio e con le espressioni sociali organizzate, attività ricreative, rapporti con i partiti politici di riferimento.
Da qui l’esigenza di configurare il gruppo politico alla stregua di un’ associazione di fatto e temporanea di parlamentari che in funzione delle attività esercitate assume ora la veste di diritto pubblico, ora quella di diritto privato.
In questa direzione, coglie certamente nel segno il primo capoverso dell’art. 14 del Regolamento della Camera dei Deputati, recentemente aggiunto con la citata deliberazione del 25/09/2012, che riconosce ai gruppi politici lo status di associazioni di deputati dotati di specifico statuto.

2. Le guarentigie costituzionali nei Consigli regionali
A prescindere dall’esigenza di identificare con precisione la natura giuridica che caratterizza i gruppi politici, anche e soprattutto ai fini dell’assoggettamento alle diverse giurisdizioni, dirimente è la riflessione sul sindacato di giurisdizionalità ammissibile in presenza di specifiche guarentigie costituzionali. L’art. 122, comma 4, Cost., alla stregua dell’art. 68, comma 1, destinato ai membri del Parlamento, così recita: “I consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.
Ora, se appare evidente lo scudo costituzionale dell’immunità di cui godono i Consiglieri regionali nell’esercizio della rispettiva pubblica funzione, meno chiaro è il confine delle attività dotate di siffatta copertura, atteso che, come già detto, la ricaduta delle attività dei Consiglieri e dei gruppi politici a cui aderiscono non sempre assume connotazioni strettamente connesse all’esercizio delle funzioni riconosciute dall’art. 121, comma 2, Cost. Su tale problematica interpretativa si registra un orientamento della Corte Costituzionale secondo cui, sin dalle sentenze n. 81 del 1975 e n. 69 del 1985, l’immunità prevista dall’art. 122, comma 4, Cost, attiene alla particolare natura delle attribuzioni del Consiglio regionale, che costituiscono “esplicazione di autonomia costituzionalmente garantita” attraverso l’esercizio di funzioni “in parte disciplinate dalla stessa Costituzione e in parte dalla altre fonti normative cui la prima rinvia”. In tale contesto, le attribuzioni costituzionalmente previste non si esauriscono in quelle legislative, ma ricomprendono anche quelle di “indirizzo politico, nonché quelle di controllo e di autorganizzazione”.
In definitiva, secondo il Giudice delle leggi, “il criterio di delimitazione della insindacabilità dei consiglieri regionali sta nella fonte attributiva della funzione, e non nella forma degli atti, sì che risultano garantite sotto tale aspetto anche le funzioni che, benché di natura amministrativa, sono assegnate al Consiglio regionale in via immediata e diretta dalle leggi dello Stato, avendo tuttavia presente che l’immunità non è diretta ad assicurare una posizione di privilegio per i consiglieri regionali, ma si giustifica in quanto vale a preservare da interferenze e condizionamenti esterni le determinazioni inerenti la sfera di autonomia propria dell’organo”. In sostanza, la giurisprudenza della Corte Cost. ha distinto dall’area insindacabile, riferita alle funzioni legislative, di indirizzo politico e di controllo, di autorganizzazione interna, nonché a quelle aggiuntive determinate dal legislatore nazionale, un’area pienamente sindacabile costituita dalle altre e diverse funzioni amministrative, determinate dalle varie fonti regionali. E’ stata infatti chiarito, “con un ragionamento valevole anche per le Regioni ad autonomia speciale”, che nessuna fonte regionale potrebbe introdurre “nuove cause di esenzione della responsabilità penale, civile o amministrativa, trattandosi di materia riservata alla competenza esclusiva del legislatore statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost”.
Corollario di questi indirizzi della giurisprudenza costituzionale è che se tutte le attività amministrative non riconducibili a forme di autorganizzazione sono da ritenersi prive dell’immunità sancita dall’art. 122, comma 4, Cost., a fortiori tutte le restanti attività dei gruppi politici sprovviste di connotati pubblicistici, mentre rimangono sottoposte alle tradizionali giurisdizioni (penali, amministrative, ordinarie e contabili), non risultano sottratte ai poteri istruttori delle relative Autorità Giudiziarie. Bisogna peraltro aggiungere che la disposizione di cui trattasi, ancorchè di rango costituzionale, ha pur sempre un carattere derogatorio e, come tale, interpretabile solo restrittivamente.
Del resto, non è un caso che la stessa Costituzione all’art. 121 demanda ai Consigli regionali l’esercizio delle “altre funzioni”, tra le quali sono certamente ricomprese le attività dei gruppi politici, che non godono affatto delle guarentigie previste dall’art. 122, comma 4. In questa direzione non deve ingannare l’assenza di controlli sugli atti amministrativi e di gestione relativi ai fondi dei Consigli regionali prevista dal successivo art. 125 Cost., poiché, com’è noto in giurisprudenza, ”l’approvazione da parte di un organo di controllo non conferisce legittimità all’atto stesso, piuttosto, ha refluenze sul piano dell’efficacia dell’atto stesso” e, pertanto, la su assenza, non comporta alcuna automatica guarentigia.
Ancora, atti e comportamenti adottati dai gruppi politici non possono annoverarsi tra i cosiddetti “atti politici” o di governo (in quanto tali sottratti al controllo giurisdizionale), ma ordinari atti di gestione della cosa pubblica (tra cui sono annoverabili anche gli atti di c.d. “alta amministrazione”), come tali, assoggettabili alle varie giurisdizioni ed alle relative responsabilità. In relazione a questa ripartizione, la posizione dei Consiglieri regionali appartenenti al gruppo politico non si differenzia da quella di qualsiasi altro soggetto preposto all’esercizio di funzioni pubbliche.
Da tali argomentazioni emerge, ictu oculi, che le attività poste in essere dai gruppi politici, nell’esercizio di funzioni non direttamente strumentali a quelle legislative e neppure a quelle di controllo e direzione (latu sensu) politica, quali sono certamente quelle oggetto di recente amplificazione mediatica (feste, cene sociali, vacanze, contribuzione arbitraria, rimborsi spese per iniziative non documentate ecc…), risultano pienamente sindacabili perché legati ai fini prefissati dalla legge.
In coerenza con queste conclusioni, andrebbe stabilito, attraverso un ulteriore sforzo interpretativo della giurisprudenza della Cassazione, quali sono i possibili confini tra l’attività strettamente privata dei gruppi politici, dove gli eventuali illeciti saranno conosciuti dal giudice ordinario e l’attività pubblicistica, dove gli illeciti possono rientrare nella giurisdizione della Corte dei Conti o in quella del giudice amministrativo allorquando risultano lese posizioni giuridiche d’interesse legittimo.

3. Il controllo della Corte dei Conti sulle spese dei gruppi politici
Esclusa, in linea di principio, l’immunità per le attività amministrative non determinate da leggi statali e per quelle più propriamente privatistiche poste in essere dai gruppi politici, rimane da verificare se i componenti del gruppo politico possano ritenersi personalmente responsabili per avere concorso all’attività del gruppo nell’adozione di atti o nella commissione di fatti che colpiscono l’erario a seguito di un uso distorto (rectius: sviamento) delle risorse pubbliche al medesimo assegnate. Lo sviamento emerge quando, ad esempio, il gruppo politico non realizza lo scopo per cui ha ricevuto l’annuale finanziamento dal bilancio regionale, ovvero consegue il medesimo finanziamento, a titolo di rendicontazione, attraverso documenti irregolari se non addirittura falsificati.
In disparte i casi più gravi, per i quali la condotta posta in essere dal gruppo politico, o da singoli componenti a questo associato, configura ipotesi di reato (peculato, truffa, distrazione di fondi pubblici, appropriazione indebita, falso in atto pubblico ecc…), ciò che più ci incuriosisce in questa sede, e che rappresenta il punctum pruriens della questione, è l’eventuale interesse dello Stato (che giustificherebbe poi le eventuali iniziative conseguenti) ad esercitare un controllo sulla correttezza della gestione del gruppo politico, al semplice fine di accertarne la rispondenza fra gli obiettivi programmati ed i risultati conseguiti. Ciò che viene in rilievo dai fatti di cronaca è infatti l’unanime esigenza di non impedire l’esercizio della funzione statuale di “repressione dell’infedeltà”, facendosi scudo di pretestuose forme di autonomia che lasciano spazio solamente a responsabilità extra-giuridiche quali sono quelle politiche, allorquando viene accertato il disutile impiego (mala gestio) delle risorse finanziarie assegnate ai gruppi politici.
La necessità che le risorse pubbliche, che provengono dai contribuenti, siano sottoposte alla verifica giudiziale della correttezza della sua gestione, costituisce un principio fondamentale del nostro ordinamento e tutti gli agenti contabili, con eccezione di quelli che operano negli organi dotati di sovranità (Camera, Senato e Corte Costituzionale) sono soggetti alla giurisdizione contabile come si desume dall’art. 54 r.d. 12 luglio 1934 n. 1214 e dall’art. 85 r.d. 18 novembre 1923 n. 2440 e come risulta confermato sia dall’art. 194, penultimo comma, r.d. 23 maggio 1924 n. 827, sia dall’art. 44 r.d. 13 agosto 1933 n. 1038. Deroghe alla giurisdizione comune “sono ammissibili soltanto nei confronti di organi immediatamente partecipi del potere sovrano dello Stato, e perciò situati al vertice dell’ordinamento, in posizione di assoluta indipendenza e di reciproca unità”. Tale non è la posizione dei gruppi politici, che, anche volendoli considerare articolazioni politico-istituzionali dei Consigli regionali, non godono di una sfera costituzionalmente protetta di sovranità, bensì di autonomia.
Il punto in analisi non è infatti quello relativo all’esistenza o meno di un interesse pubblico al corretto espletamento dei compiti istituzionali dei gruppi politici, ma piuttosto quello di stabilire se la natura dell’interesse esistente richieda o meno l’esercizio di un controllo da parte della Corte dei Conti (quale organo istituzionalmente a ciò deputato) sull’attività di gestione dei gruppi politici, quesito al quale, in assenza di esplicite e diverse indicazioni formali, va data risposta positiva, a condizione che si faccia tesoro della giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia, secondo cui, nell’ambito dei poteri ad esso spettanti nei giudizi di responsabilità per danno erariale, “l’ampio potere che il procuratore ha in questo campo deve essere esercitato in presenza di fatti e notizie che facciano presumere comportamenti di pubblici funzionari ipoteticamente configurabili illeciti produttivi di danno erariale e deve essere diretto ad acquisire atti o documenti precisamente individuabili, di modo che l’attività del procuratore cui tali richieste ineriscono non possa essere considerata come una impropria attività di controllo generalizzata e permanente”.
Nel giudizio di responsabilità amministrativa, la Procura della Corte dei Conti, chiamata al presidio oggettivo del pubblico erario, è qualificata come organo che agisce nell’interesse dell’ordinamento, ovvero come rappresentante non dello Stato-apparato, bensì dello Stato-comunità. In tale contesto ordinamentale, a nulla rileva la natura giuridica “anfibola” del gruppo politico, atteso che il dato essenziale che radica la giurisdizione contabile è rappresentato dall’evento dannoso verificatosi a carico del patrimonio pubblico e non più dal quadro di riferimento (pubblico o privato) nel quale si colloca la condotta produttiva di danno, con la conseguenza che quando venga in evidenza, come per i casi che ci occupano in questi giorni, un danno cagionato al Consiglio regionale per un uso distorto delle risorse finanziarie assegnate ai gruppi politici, la giurisdizione contabile non può non essere riconosciuta. E’ stato già affermato che “tutti coloro che gestiscono, in fatto o di diritto, denaro pubblico, siano essi presidenti, ministri, dirigenti, funzionari, dipendenti, commessi, di Amministrazioni o di enti (anche in forma formalmente privata) devono essere assoggettati al sindacato del Giudice contabile, laddove vengano in rilievo condotte commissive od omissive con cui si sia dilapidato o malamente gestito denaro dei contribuenti (cittadini ed imprese) o da entrate da destinarsi in ogni caso al soddisfacimento di finalità pubblicistiche”.

4. Considerazioni finali
Non è in discussione il sistema democratico ma la qualità del sistema pubblico. Non intendiamo iscriverci al non partito dell’anti politica né partecipare al coro di coloro che ritengono necessario un impegno politico privo di qualsiasi forma di remunerazione. L’impegno politico di tipo elettivo gode infatti di una particolare copertura costituzionale a difesa del sistema democratico ed a tutela di chi viene investito di tale mandato. Ai sensi dell’art. 51 della Costituzione, “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento………”. Orbene, se è vero che l’esercizio delle funzioni elettive dà luogo ad un rapporto di servizio onorario, il cui compenso è scevro, ex art. 54 Cost., da qualsiasi connotato di sinallagmaticità, con la conseguenza che la corresponsione del gettone di presenza o dell’indennità di funzione non costituisce retribuzione, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, è anche vero che secondo la letteratura che si è affermata sul tema, il concetto di munus pubblicum implica lo svolgimento di un compito che viene si “donato” alla collettività, ma non in chiave eminentemente gratuita, presupponendo pur sempre una situazione di debito a carico di coloro che ricevono tale “dono”.

Conseguenza di tale ragionamento è che la democrazia ha i suoi costi, che gravano puntualmente sul bilancio della spesa pubblica e quindi su ogni singolo contribuente. Sta al Sistema-Italia, e alla sua classe dirigente che quotidianamente lo nutre, individuare le tecniche di check and balances idonee a ripristinare un equo, responsabile e sostenibile “contratto sociale” tra Stato e cittadino.

Massimo Greco

da: ambientediritto.it e quotidianolegale.it

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