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Pigiatoi e mulini nella Troina medievale

Dislocati nelle campagne del territorio di Troina, importante centro montano del Val Demone in età medievale, erano una serie di edifici e strutture deputate alla lavorazione dei prodotti agricoli ed alla produzione e trasformazione di materiali utili all’uomo; essi permettevano il lavoro costante e continuo di parecchi uomini in un territorio avente un’estensione più che doppia rispetto all’attuale, ma con una popolazione quasi dimezzata.
I modelli produttivi riscontrati erano strettamente connessi alla vocazione agricola dei luoghi in questione, legata ad una ben definita cultura alimentare basata sul classico binomio “grano-vino” ed alla quale si aggiunse in periodi successivi l’”olio”, oltre ad essere integrata ad altri modelli produttivi, quali il “silvo-pastorale”.
Tra le strutture deputate alla lavorazione dei prodotti agricoli giunte fino ai nostri giorni, qualcuna citata anche nella documentazione d’archivio, si annoverano in primo luogo i palmenti, seguiti dai mulini ad acqua e da una serie di impianti preposti alla lavorazione e trasformazione di prodotti meno importanti ma fondamentali nell’economia del periodo preso a riferimento.
Permettendo la trasformazione dell’uva in mosto sullo stesso luogo di coltivazione del vigneto, il palmento rimane nei secoli una struttura che indica una correlazione tra la presenza di una roccia o di un grosso masso, dalla quale veniva scavato il vascone per pigiare l’uva, denominato “palmento” o “pigiatoio”, e l’impianto di un vigneto.
Nell’ambito del vasto territorio troinese sono state individuate una cinquantina di pigiatoi ricavati nella roccia, utilizzati sicuramente in epoca medievale. A partire, infatti, dalle aree prossime al centro abitato, esposte a Mezzogiorno, erano presenti dei vasconi realizzati nei pressi dell’antica cinta muraria, nella zona archeologica di località “Catena”, seguiti da altri ubicati a “San Pantheon”, “Dietro le Rocche”, “Carzopillo” e “Loggione”, fino a raggiungere “Serro Bianco” e “Calabrò”. Anche i dintorni di “Muganà” riservano interessanti esempi di vasconi, qualcuno ricavato da strutture più remote; non sono da meno quei pigiatoi ubicati più a valle, in contrada “Lercara”, “Liso”, “Sotto Badia” e “Ordine”, ma anche in contrada “Sant’Antonio”, fino al “Serro di Scarvi”. Continuando su quest’itinerario, si possono incontrare strutture della stessa tipologia in contrada “Torre di Naso”, “Cota”, “Varsamà” e “San Vito”. Oltre a questa zona, posta a sud del territorio, non mancano pigiatoi riscontrati nella zona a nord dello stesso ma con esposizione, comunque, a Mezzogiorno. Si menziona un caratteristico palmento in contrada “Corvo”, ed ancora nelle contrade “Calamaro”, “Sciarette” e “Mannia”. Anche se non facenti più parte dell’attuale territorio comunale, vale la pena ricordare i numerosi pigiatoi posti oltre il “Fiume Troina” in contrada “Pricchio” ed “Ancipa” ed, infine, i cosiddetti “Palmintelli” nell’omonima contrada. La località denominata “Scifazzu”, dal greco “skýphos” = “tazza”, “vasca” o “trogolo”, indica la presenza di un contenitore dove vi mangiano i maiali; in particolare, nel caso in questione, indica un vascone di forma rettangolare, scavato nella roccia ed utilizzato per la pigiatura dell’uva.
La toponomastica più recente fa menzione di strutture databili tra il XVIII ed il XIX secolo e realizzate in muratura, delle vere e proprie case rurali nelle quali è presente anche un ambiente destinato a palmento. Un tale tipo di edificio, sia esso scavato nella roccia, sia realizzato in muratura, nelle sue linee generali era composto da due vasconi, dei quali uno più ampio e sopraelevato, il vero e proprio pigiatoio, denominato ancora oggi dai contadini “paraturi” o “pistaturi” e l’altro, più piccolo e sottomesso al primo, denominato “palacciu”, provvisto di un incavo nella parte centrale, al fine di permettere la raccolta del mosto. I raspi rimasti nel pigiatoio venivano ulteriormente pigiati al fine di ottenere altro mosto e, successivamente, pressati attraverso delle assi di legno sulle quali venivano riposte grosse pietre. L’impiego di una trave di legno denominata “chianca”, conficcata in una delle pareti del palmento e legata all’altra estremità per essere utilizzato a mo’ di leva, permetteva di accentuare la pressione.
Tecniche successive e più evolute, pur effettuando la fondamentale fase di pigiatura, esercitata sempre con i piedi, facevano sì che il mosto ottenuto venisse fatto fermentare da uno a due giorni insieme alle vinacce e da queste separato, successivamente, per mezzo di torchi. Questi ultimi erano costituiti da una robusta trave incassata ad un estremo, mentre dall’altro era imperniata una vite di legno, “‘u truocchiu”, realizzata generalmente con legno di sorbo, attaccata alla base ad una pesante pietra che aveva la funzione di contrappeso e denominata “rumanu”.
Tra i “mulini”, impianti azionati dalla forza idraulica o dal vento, impiegati nella molitura dei cereali, e tra i “paratori”, macchine idrauliche utilizzate per la follatura dei panni, si può annoverare un nutrito numero di strutture poste in massima parte lungo il “Fiume Troina”, ma anche in luoghi distanti dai fiumi e dai torrenti, alimentati da acque di sorgente.
La prima menzione di mulino ad acqua nel troinese si riscontra in un diploma del 1082, riferito alla Chiesa di Troina, alla quale il conte Ruggero, con il ripristino del vescovato, assegna vasti possedimenti; nell’elenco dei beni figura anche un mulino, del quale si sconosce il luogo dove potesse sorgere, e dieci villani: “et decem villanos in Civitate Traynae, et unum Molendinum in flumine”. Altro documento, questa volta del 1085, ma di dubbia autenticità, fa menzione anche della località nella quale è ubicato il mulino, precisamente “in loco ubi dicitur Hamethiz”.
Per una documentazione e descrizione più chiara e completa dei mulini ad acqua presenti nel territorio di Troina, bisogna giungere alla fine del secolo XIII e gli inizi del secolo successivo; è in questo periodo che sono citati alcuni mulini collocati lungo la fiumara di Troina, denominata “flomaria magna”, lungo il corso cioè del “Fiume Troina”. Sappiamo dell’esistenza di un mulino, già nel 1294, in contrada “Ponte”, il cosiddetto “Mulino del Ponte”; di un altro mulino, attestato nel 1325 in contrada “de Barda”, definito “molendinum magnum”; di altri due mulini, attestati nel 1375 ed ubicati “ultra flumen magnum”, rispettivamente in contrada “Torre” ed in contrada “Ciappe”; infine, di un mulino posto lungo il vallone “de Xilemi”. Per gli anni a seguire, poche e frammentarie risultano le notizie ed anche i toponimi relativi ai mulini ad acqua del troinese, se non l’attestazione di un mulino denominato “Molendinum Trahyne”, confiscato al ribelle Gugliotta de Balba e concesso da re Martino nel 1399 a certo Filippo Darturello.
Tra i mulini che entrano nella toponomastica in documenti più recenti, anche se nell’insieme risalenti, per tipologia e caratteristiche strutturali, quasi tutti al periodo medievale, se ne possono citare due di pertinenza dei monasteri basiliani, attestati nella prima metà del XVIII secolo. Il primo era posto nel tenimento “Brinduri”, la cosiddetta “terra Milendini S. Silvestri”, località nella quale ancora oggi sono presenti i ruderi del “Mulino dell’Abbazia”, denominato anche “Mulino S. Silvestro” o “della Lavina”, menzionato tra i cespiti dell’abbazia di San Michele Arcangelo; il secondo, invece, era posto nel feudo di “Mezzalora”, indicato “cum turri et domo”, denominato anche “Mulino Salice”, ed inserito tra i cespiti dell’abbazia di San Silvestro e Sant’Elia.
Bisogna giungere alla documentazione ottocentesca per avere un quadro completo dei mulini ad acqua presenti a Troina, anche se risalenti ad epoche più remote, quali il “Mulino Soprano” (in dialetto “Mulinu Supranu”), ubicato nella parte a monte (“di sopra”) della fiumara rispetto agli altri mulini; seguito dal “Paratore” e, in successione, dal “Mulino Carmine”, dal “Mulino Santa Clara”, dal “Mulino Artimagna”, dai “Mulini di Failla”, dal “Mulino del Ponte”, dal “Mulino San Cataldo”, dal “Mulino Pacione”. Il “Mulinazzu”, struttura ubicata in contrada Sant’Ippolito-Amoruso, viene indicato dalla tradizione come arabo; ed ancora il “Mulino Ordine”, posto nell’omonima contrada. “Mulino a Vento” è il nome di un quartiere periferico di Troina, nel quale ancora oggi è presente un edificio di forma circolare ed a volumetria tronco-conica, ben conservato e risalente al XVI secolo, in cui veniva praticata la molitura del grano e di altri cereali con macine azionate dall’energia eolica.
Lo scenario che si poteva osservare lungo la “Piana di Failla”, località posta sulla sponda destra del “Fiume Troina”, dove furono realizzati un buon numero di mulini ad acqua fin dal periodo medievale, viene al giorno d’oggi documentato da quanto ancora si evince dalle mappe catastali.
L’acqua di questo fiume, infatti, necessaria ad alimentare i mulini, veniva convogliata nelle cosiddette “saje”, dall’arabo “saqiya” = “canale d’irrigazione”, attraverso delle prese di captazione poste a monte degli stessi edifici. Dal canale principale, denominato in dialetto “saja mastra”, interamente scavato nel terreno, si diramavano dei canali secondari, i cosiddetti “sajuna”, i quali reimmettevano le acque nuovamente in circolo nel fiume. È probabile che le acque in questione, oltre ad alimentare i mulini, servissero ad irrigare i campi circostanti a tali strutture, al fine di permettere lo sviluppo di colture in irriguo; ed attraverso questa tecnica gli Arabi, esperti nella scienza idraulica, posero ogni cura alla regimazione delle acque.
Quanto esposto sopra porta a considerare come l’acqua, in questo periodo diviene uno degli elementi naturali che la popolazione locale, in particolare quella troinese, saprà utilizzare magistralmente per sviluppare alcune delle colture diffuse dai Musulmani, anche se quella prevalente rimarrà la cerealicola, grano ed orzo, poiché la natura dei terreni costituiva un ostacolo alla diffusione di altre piante d’interesse agrario.
Se la funzione primaria dei mulini ad acqua era quella della molitura dei cereali, edifici simili a questi verranno realizzati, tra la fine del XIV secolo e gli inizi del successivo, per la follatura e tiratura dei panni di lana, una particolare fase del processo di lavorazione che aveva lo scopo di infeltrire, impermeabilizzare e rendere più compatto un tipo di tessuto denominato “orbace” (in dialetto “‘u dappu”), una sorta di panno pesante non raffinato e di qualità scadente, destinato a gente povera, a chi lavorava la terra, ed a questi ultimi spesso corrisposto come forma di retribuzione in natura.
Due, in particolare, sono i toponimi giunti fino ad oggi che stanno ad indicare questo genere di edifici. Il primo, riferito alla contrada “Uttigghiaria”, italianizzato nelle mappe in “Bottiglieria”, località limitrofa al sito dove è ubicato il “Mulino San Cataldo”, indicherebbe un “battinderium”, mulino ad acqua simile alle gualchiere, utilizzato nella battitura dei panni ma anche per la stigliatura del lino e della canapa. Il secondo toponimo si riferisce alla contrada denominata “Paratore”, nella quale doveva sorgere un “paratorium”, edificio simile al precedente per tipologia e struttura.
In Sicilia esistevano anche competenze tecniche di alto livello riferite alla manifattura tessile, tradizione legata agli Arabi ed ereditata dagli Ebrei che finirono per avere il quasi monopolio sulla tintura. Le comunità ebraiche erano presenti anche nell’industria serica e contrada “Mangàno” indicherebbe la presenza di un sito dove, con ogni probabilità, avveniva la prima lavorazione della seta attraverso l’impiego di caldaie nelle quali si immergevano in acqua bollente i bozzoli del baco; i filamenti ottenuti venivano successivamente avvolti su di un aspo.
Altre strutture da annoverare e dalle quali prendono il nome diverse località poste ai margini del centro abitato di Troina, sono i cosiddetti “stazzuna”, dal basso latino “statio”, indicanti la fornace dove veniva realizzato il vasellame e le stoviglie di terracotta (“quartare” e “cannate”) ma anche tegole (“gialamiri”) e mattoni (“mastazzuoli”). L’arte della ceramica nella Sicilia orientale, innestata sulla tradizione locale di derivazione siceliota, ebbe sotto gli Arabi un nuovo impulso e non è da escludere che un certo numero di ceramisti fosse costituito da Ebrei.

Nicola Schillaci

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