domenica , Dicembre 22 2024

Con abolizione Province aumenterà responsabilità Università Kore a difesa dei territori interni della Sicilia

“Con la soppressione delle Province aumenterà la responsabilità dell’Università Kore di Enna a difesa dei territori interni della Sicilia”

“Ciò che trasforma lo Stato in un inferno è il tentativo dell’uomo di farne un paradiso” F. Hölderlin

Per capire il territorio in cui viviamo serve ragionare sul suo spazio di posizione e sulla sua capacità di elaborare una prospettiva di rappresentazione. Oggi bisogna considerare il territorio non come spazio del rinserramento ma dell’attraversamento, a cui rimanere ancorati, ma per partire ed affrontare il mondo. In un epoca in cui l’impianto dei poteri napoleonici viene messo in discussione dall’alto, il punto è valorizzare il proprio essere territorio di confine, trattino tra città e contado, in alleanza con le altre aree del territorio interno alla Sicilia, aggregando funzioni e governance. Perché un capitalismo coalizionale da giocarsi a livello di piattaforme territoriali è sempre più necessario per fare il salto nella capacità competitiva. E’ questa la sfida a cui siamo tutti chiamati, ma soprattutto sono chiamati i leader delle organizzazioni dei tre ambiti chiave: le imprese, il settore pubblico e la società civile.

Riteniamo che uno strumento in grado di promuovere una piattaforma territoriale e culturale condivisa tra le nuove élite e i circuiti della cittadinanza “beninformata”  per arginare il fenomeno della temuta desertificazione sociale, economica, culturale ed istituzionale delle aree interne della Sicilia sia la Libera Università Kore di Enna. Dopo lo tsunami che ha investito sul piano della credibilità sia i partiti politici che le Istituzioni di governo, l’Università Kore di Enna rimane l’unica Istituzione pubblica non statale in grado di arginare il “populismo masochista” che sta prendendo corpo, “la proprietà emergente” del fenomeno Grillo, di inserire il “racconto della società” nel mezzo tra economia e politica per dirla con Polany e di miscelare i tradizionali ingredienti che rendono competitivo un sistema territoriale: l’aretè (la virtù, la competenza) e la tèchne (la capacità di realizzazione pratica).  

Un ambizioso quanto necessitato, progetto di ricerca potrebbe consistere, quindi, nell’indagare la natura giuridica della Libera Università Kore di Enna ed i rapporti tra la stessa ed i suoi padri fondatori, al fine di farne emergere quella funzione sociale e culturale, evidentemente complementare a quella accademica, da mettere a disposizione per una piattaforma di difesa e rilancio delle aree interne della Sicilia, attraverso la promozione di una nuova “coscienza collettiva condivisa”, di politiche responsabili all’insegna dell’intesa istituzionale per la gestione associata di alcuni servizi di interesse generale, di nuove forme di collaborazione progressiva tra sistemi territoriali e di sviluppo locale di nuova generazione. In sintesi, riteniamo che la Libera Università Kore possa riuscire a dare voce e far valere quel “pensiero meridiano”, teorizzato da Franco Cassano, non solo per interpretare il cambiamento in atto ma soprattutto per trovare nuove risposte a nuove domande. E’ solo da un salto metodologico che segua questa mappa della modernizzazione incompiuta dei nostri territori che il “ce la faremo” potrà diventare realtà.    

 Il Contesto

In tempo di crisi, come quello che stiamo vivendo, e di cui non riusciamo ancora ad intravederne l’uscita, una “terza via” da scoprire insieme sembra essere il leit motiv di chi si è razionalmente rassegnato di fronte all’evidenza che lo Stato non è più in grado neanche di garantire i costituzionalizzati livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, e il mercato è sempre più preda della seconda crisi finanziaria di dimensioni planetarie. Ma mentre alla crisi del ’29 gli Stati, pur disorientati e scoordinati tra loro, risposero con riforme strutturali tali da sovvertire il rapporto tra Stato e mercato redistribuendo redditi e lavoro ai ceti più deboli, l’odierna crisi seguita al fallimento della Lehman Brothers sta ricevendo risposte apparentemente coordinate ma prive di letture ed analisi interpretative adeguate.     

In tale contesto, gli Stati-Nazione, soprattutto dell’Unione Europea, mentre hanno messo in atto politiche di rientro traumatiche della spesa pubblica che tengono conto solo dei giudizi della Banca Mondiale degli investimenti e dei suoi rapporti annuali (Doing Businnes), hanno finito per destabilizzare le già deboli architetture istituzionali.

Le fibrillazione investono quindi tutto e tutti, dai sistemi di rappresentanza politica e sociale alle identità collettive, ai gruppi civici. Come ha scritto Z. Bauman nel suo celebre libro “La decadenza degli intellettuali”, alla formazione dell’identità collettiva e delle regole fondamentali della convivenza hanno concorso sempre figure tipiche, come lo sciamano o il capo guerriero, che hanno trasformato le pulsioni popolari in visioni della realtà e dell’ordine sociale e, allo stesso tempo, attraverso l’organizzazione militare hanno garantito la sicurezza dagli attacchi esterni. Oggi, nel corpo sociale questa “funzione intellettuale” sembra essersi spenta. E poiché la crisi dell’Italia, così come quella di gran parte dell’Occidente, è una crisi dell’intelligenza sia individuale che collettiva, una corretta analisi del fenomeno non può che indurre le migliori energie ad individuare formule per ri-animare, in fretta, tale vitale funzione sociale, rinunciando ad ogni forma di cooptazione della classe dirigente. Davide Lopez in un suo impegno editoriale intitolato “Il mondo della persona”, riprendendo alcune riflessioni nietzschiane sullo spirito gregario, affermava che senza “pastori” un popolo non va da nessuna parte. Anche l’antica visione greca della polis ci racconta che una città ha bisogno del governo dei migliori e che la democrazia non è il regime della mediocrità in cui tutte le personalità originali sono soffocate e ostracizzate. Una élite è sempre necessaria a una nazione, farne a meno significherebbe cedere alle suggestioni della massa che, come ben sottolineava Max Weber “pensa unicamente fino a dopo-domani, esposta all’influenza del momento”. La vera élite, nell’accezione della teoria di Michels-Mosca-Pareto, è quella che si dimostra capace, in un dato momento storico, di interpretare la “comunità del destino”, secondo la formula che verrà elaborata dopo da Carl Schmitt.

Le fibrillazioni diventano vere turbolenze in quei territori come la Sicilia dove l’Italia è meno Italia. Non vi è dubbio che sul territorio si avverte la stanchezza di quel modello che alcuni hanno definito impietosamente “doroteismo socialdemocratico”, che ha trasformato in una ritualità stanca i fondamentali: piccola e media impresa, associazionismo, cooperazione, forze sociali e istituzioni. Qui, la crisi generale contempla traumaticamente la crisi del grande erogatore pubblico che per tanti anni ha creato “benessere senza sviluppo”, “welfare dopato” ed “élite inadeguata”.

Le ricadute sulle città e sulle comunità locali sono fisiologiche, tanto da richiedere urgenti analisi e nuove letture della metamorfosi dei territori sempre più in fibrillazione. Nel nostro Paese si è quindi aperta una vera fase di cambiamento e di conflitti dagli esiti tanto aperti quanto imprevedibili. I territori subiscono così un doppio strappo: uno dal basso verso l’alto in cui crescono per qualità e quantità i fabbisogni delle comunità locali; l’altro dall’alto verso  il basso ad opera di uno Stato che, nel tentativo di far subito cassa, ha travolto principi e regole democratiche sottese al valore di quell’autonomia politica dotata di copertura costituzionale. E da qualche anno i territori più deboli economicamente come quelli delle aree interne della Sicilia assistono anche al terzo strappo, in orizzontale, verso le aree metropolitane di Palermo, Messina e Catania. Non dovrebbe meravigliarci più di tanto se si evidenzia che entro il 2050 i due terzi degli abitanti della terra vivranno in enormi agglomerati urbani in cui si concentreranno l’80% della produzione economica mondiale.

Alcune città del nisseno, dell’ennese, del messinese e del palermitano cominciano a svuotarsi e le popolazioni residenti diminuiscono di anno in anno. La desertificazione della aree interne della Sicilia è ormai una triste realtà. A ciò contribuisce non poco la prospettiva di avere nell’immediato futuro città senza municipi. Accorpamenti, fusioni, gestioni associate, ambiti territoriali ottimali, soppressione, razionalizzazione ed ottimizzazione sono infatti le formule che più comunemente, e con incantevole determinazione, vengono utilizzate dal legislatore statale, soprattutto attraverso l’uso disinvolto della decretazione d’urgenza, per stravolgere l’attuale impianto istituzionale all’insegna della spending review.

Da qui la fisiologica emersione di insofferenti movimenti civici come i “forconi” ed il recente ingresso all’Assemblea Regionale Siciliana e al Parlamento della Repubblica di vere e proprie flotte di Deputati e Senatori eletti nelle liste di Grillo.  Peraltro, la cura fantasiosa proposta dal neo Governatore della Sicilia Crocetta nella formazione della propria giunta di governo appare inadeguata a curare le patologie croniche di cui soffre la Sicilia e i siciliani. Al netto di due nomine assessoriali (il magistrato Marino all’energia ed ai servizi pubblici e l’esperto Caltabellotta all’Agricoltura) i restanti 10 assessori sembrano infatti scelti con l’obiettivo di non riuscire a muovere nulla dei rispettivi dipartimenti.    

E tuttavia, oggi il territorio siciliano è anche questo magma partecipativo, in cui movimenti civici, questione giovanile e studentesca, proteste organizzate, coscienza collettiva e sostenibilità dello sviluppo si mixano per consegnarci un futuro diverso. Una prospettiva inedita, in cui la vecchia ricerca della coesione sociale viene sostituita dall’esigenza di trovare le coordinate di nuovi modelli di conflitto. In questo nuovo scenario, in cui è facile disorientarsi e/o scoraggiarsi, bisogna formare una nuova classe dirigente capace di riscrivere le regole del “contratto sociale” senza sottovalutare il “nuovo mondo” dell’Unione Europea ma, al contempo, senza perdere di vista il concetto secondo cui una politica senza territorio è come un insegnante senza scuola. E questo perché la società post-industriale implica identità poliedriche e cangianti, flessibili e à la carte. Per alcuni questo cambiamento apre orizzonti nuovi, praterie da conquistare, opportunità infinite. Del resto, un mondo dove trionfi la realizzazione del sé e delle proprie potenzialità, scardinando fedeltà e rigidità tradizionali, non può che esaltare gli spiriti innovatori e dinamici.

Ciò che farà la differenza, nei prossimi anni, sarà soprattutto l’avere fatto, o no, gli investimenti che servono per aumentare la qualità dei servizi accessibili e il livello delle conoscenze localizzate, frutto di esperienze fatte nel territorio. In questo momento di crisi, la prima ragione di differenza, dunque, è tra territori attivi e passivi. Facendo emergere quei territori che sceglieranno di prendersi i rischi legati all’incertezza del futuro, stringendo la cinghia sulla spesa corrente e spostando invece le risorse sul terreno dell’investimento in servizi di qualità e in conoscenze localizzate. In passato, Stato, Regione Siciliana ed Enti locali garantivano al servizio pubblico una disponibilità extra-mercato di finanziamenti con cui costruire acquedotti, strade, zone industriali, scuole, centri di ricerca ecc… Oggi questi fondi sono ridotti al lumicino e reperibili solo all’interno dei programmi comunitari. Dunque bisogna trovare forme alternative di finanziamento e per farlo servono nuovi stakeholders, nuove alleanze tra pubblico e privato. Le filiere del nuovo capitalismo della conoscenza puntano alle forme di investimento cognitivo nel territorio, facendo emergere le capacità generative e relazionali legate alle persone e ai contesti. E qui, la politica torna ad essere importante, non tanto per gli incentivi e i finanziamenti extra-mercato del passato, quando per la leadership che può rendere coerenti e sinergiche le scelte pro-attive dei diversi attori del sistema territoriale.

Le Autonomie funzionali

            Il Paese è in mezzo a un guado con una transizione in cui gli unici settori che crescono sono quelli della cultura, dell’impresa sociale e dei servizi alla persona (sui quali si apre un enorme problema di produttività). Solo dall’incontro tra innovazione sociale e innovazione istituzionale, come sempre, si potrà realizzare una società che viene avanti. Dopo l’esaurirsi della funzione partitica, il vero nodo della classe non solo politica è curare il “malessere democratico” che ne è conseguito e sperimentare forme nuove di aggregazione sociale.

Tra gli attori locali precettati a fornire il proprio contributo al “cambiamento” vi sono le cosiddette “Autonomie funzionali”. Le Autonomie funzionali trovano infatti la loro genesi nella collettività o categoria di interessi a cui appartengono. Rappresentano, in tal senso, un modo di fare amministrazione differente, dove l’appartenenza alla comunità ne delimita gli interessi da tutelare e allo stesso tempo permette di attribuire una connotazione soggettiva all’ente che tali interessi rappresenta. Tali tipologie di Autonomie, connotate dall’autonomia statutaria e gestionale, con gli scopi di utilità sociale che ne caratterizzano la funzione orientata ad attività di interesse generale, rappresentano l’espressione della sussidiarietà orizzontale: libere, indipendenti da condizionamenti esterni e dotati della capacità di autodeterminarsi.

Per recitare nel migliore dei modi la parte che il tempo che viviamo ha affidato loro, tali soggetti devono però avere capacità di ascolto ed analisi, attitudine ad individuare bisogni collettivi, impegno a selezionare con imparzialità quelli che possono soddisfare con la loro attività la crescita culturale, sociale ed economica dei territori di riferimento. L’obiettivo di svolgere la funzione di “catalizzatore delle risorse, delle politiche e delle competenze presenti sul territorio su specifiche problematiche di interesse comune” e di promuovere una “cittadinanza competente” implica che si sviluppi un contesto di collaborazione con gli altri soggetti di rilievo sociale ed istituzionale, nel rispetto dell’autonomia, delle distinte competenze e responsabilità di ciascuno.

La Libera Università Kore di Enna

Tradizionalmente il sistema universitario europeo contempla due modelli organizzativi, quello napoleonico, che considera l’Università quale componente dell’apparato statale facente capo al relativo Ministero e quello inglese, secondo cui l’Università è, innanzitutto, una creazione della società civile. Il modello della Fondazione Kore non rientra né nella prima tipologia né nella seconda. Non è infatti una creatura dello Stato, anzi, al contrario, come abbiamo visto è preclusa ogni ipotesi di statalizzazione. Ma non è neanche espressione della società civile, atteso che nessuna organizzazione esponenziale della società civile, intesa come componente privata, ha contribuito alla nascita dell’Università. E questa sua atipicità la differenzia anche dal modello intermedio humboltdiano, in cui risulta presente una componente statale ed una più propriamente comunitaria. 

            Anche se non statale, la natura e la funzione pubblica della Fondazione Kore ci porta dritti al principio di sussidiarietà per individuarne una corretta classificazione. Ma, in questo caso, proprio perché è stata esclusa la presenza della società civile è più appropriato parlare di sussidiarietà verticale. Siamo infatti in presenza di un’iniziativa certamente voluta dal territorio e per il territorio e promossa dagli Enti territoriali che hanno saputo interpretare al meglio il ruolo che l’evoluzione del sistema istituzionale (rectius, costituzionale) affida loro. Gli Enti locali hanno infatti saputo fare sistema, creando il Consorzio Ennese Universitario (C.E.U.) prima e la Fondazione dopo per ottenere il riconoscimento ministeriale della Libera Università Kore. Tre sono gli ingredienti utilizzati che rappresentano ancora oggi gli indicatori di un modello di governance del sistema universitario che, verosimilmente, ha contribuito ad animare anche il dibattito di più ampia portata sulla riforma del sistema universitario in Italia: a) titolarità pubblica; b) responsabilità territoriale; c) autonomia funzionale. Basti pensare alle nuove Fondazioni universitarie: l’art. 59, comma 3, della legge n. 388/2000, (seguito dal DPR 24/05/2001, n. 254) dispone che le Università, per lo svolgimento delle attività strumentali e di supporto alla didattica e alla ricerca, possono costituire fondazioni di diritto privato con la partecipazione di enti, amministrazioni pubbliche e soggetti privati. Spontaneo il commento di autorevoli esponenti del mondo universitario secondo cui “E’ interessante notare che il processo di autonomia che si sviluppa nell’ultimo decennio risulta essere, in sostanza, un processo di avvicinamento del modello delle Università statali al modello delle Università di origine privata”. 

            In un contesto in cui la dicotomia tradizionale pubblico/privato ha perso la sua rilevanza questi tre concetti servono, quindi, a tracciare i contorni di una un modello contemporaneo di università, basato sempre meno sui tradizionali schemi statale/non statale, pubblico/privato, e sempre più su schemi di “autonomia funzionale” e “di tendenza”. L’esperienza delle autonomie funzionali si presenta infatti come una concreta risposta all’esigenza di moltiplicare le modalità di rapporto con le comunità locali attraverso organi dotati sul piano operativo e decisionale di ampia autonomia. L’autonomia funzionale sembra conciliare la duplice caratterizzazione dell’Università, come ente esponenziale di una collettività in grado di promuovere beni e servizi di rilievo pubblico. Peraltro, “il parallelismo tra le due autonomie, quella funzionale e quella territoriale, con tutte le articolazioni che esse comportano, si pone nella concezione del principio di sussidiarietà, codificato in sede di riforma costituzionale, che costringe a ribaltare tutte le questioni fin qui poste andando alla radice della concezione stessa del potere pubblico, se esso sia fonte dell’autonomia – e quindi dei soggetti che come tali vengono in sede costituzionali riconosciuti – o se ne sia il supporto”. 

In coerenza con il principio contenuto nell’ultimo comma dell’art. 33 della Costituzione, secondo il quale, “le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”, la Fondazione Kore può farsi rientrare a pieno titolo tra le autonomie funzionali, perché riesce ad essere nel contempo organizzazione pubblica locale per l’esercizio delle citate funzioni costituzionali e organizzazione rappresentativa della società civile e delle rispettive comunità di riferimento per il tramite del C.E.U..

In un momento come quello attuale, in cui il tradizionale confronto istituzionale tra le Regioni diventa sempre più occasione di “scontro” per definire i parametri di un preoccupante Federalismo fiscale, l’individuazione di un sistema universitario locale, quale “motore della cultura” dei territori, è più che mai necessario e presupposto essenziale per consentire a quest’ultimo di esprimere tutta la sua potenzialità, consolidando il suo ruolo di istituzione autonoma, interprete di un rapporto paritario con gli altri atenei e interlocuzione di reciproca lealtà con i diversi livelli di governo della Repubblica. Quindi non “ente autonomo di diritto pubblico”, attesa l’inequivocabile natura privatistica della Fondazione, ma sostanzialmente “ente pubblico dotato di autonomia funzionale”.

Questa funzione di catalizzatore che raccoglie e suscita energie realizzatrici, configura l’Università Kore quale soggetto animatore della sussidiarietà orizzontale e del capitale sociale, intendendo per capitale sociale non quello tradizionalmente costituito dalle azioni nominali detenute dai soci di un’azienda quotata in borsa, ma quello formato dalle dotazioni culturali e civiche di cui dispone la comunità locale di riferimento. L’Università Kore è oggi, più che mai, chiamata non ad assumersi responsabilità politiche in luogo di chi ha con evidenza fallito, ma responsabilità sociali nei confronti non solo dei propri discenti ma di tutti i cittadini dei territori interni della Sicilia che ambiscono ad elevare la qualità di vita delle comunità locali in cui vivono. La Kore può aiutare a riposizionare l’immagine dei territori interni alla Sicilia come piattaforma mediterranea della qualità e può svolgere una funzione da agente coagulante per mettere in rete le élite del cambiamento che hanno desiderio di rappresentarsi.

In questo nuovo quadro di responsabilità multi level in cui ogni attore della buona società civile è chiamato a fare la propria parte bene ed in fretta, l’Università Kore di Enna, che appena oggi ha inaugurato l’anno accademico 2013/2014, sembra avere l’ambizione di recitare a pieno il proprio ruolo nel rispetto di coloro che la fondarono nei primi anni ‘90, con la fiducia di coloro che ancora oggi continuano a trasmettere i valori della conoscenza, del sapere, dell’informazione, della mutualità e dell’appartenenza ad una comunità locale e con l’aspettativa di coloro che ostinatamente rimangono convinti che un futuro migliore è possibile anche al centro della Sicilia.

 

Massimo Greco

 

 

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