Tra i dialetti siciliani, che in genere hanno una matrice comune tra loro pur con le dovute differenze, si distinguono alcuni dialetti che da sempre sono stati considerati in un certo senso estranei al siciliano stesso, al punto che si è parlato di isole alloglotte (comunità , cioè, che parlano una varietà linguistica diversa da quella parlata dalla maggioranza della popolazione). Sotto tale denominazione in Sicilia rientrano due gruppi dialettali: quelli greco-albanesi situati nell’entroterra palermitano e quelli galloitalici o, come qualcuno si ostina ancora a chiamarli, galloromanzi o lombardosiculi, galloitaliani, e che si concentrano tra le province di Enna e Messina e, nella forma meno accentuata, anche di Siracusa e Catania.
Che cos’è il galloitalico? e il galloitalico di Sicilia?
Con il termine galloitalico i linguisti definiscono i dialetti settentrionali, parlati in quella regione a sud delle Alpi che i Romani chiamarono Gallia e il cui sostrato è costituito dalle lingue celtiche. In tempi più antichi era stato usato l’aggettivo più generico di lombardo, che individuava geograficamente i confini della regione conquistata dai Longobardi.
Con il temine galloitalici di Sicilia intendiamo l’insieme di quei dialetti siciliani che presentano, soprattutto a livello fonetico, notevoli tracce riconducibili a vari dialetti settentrionali, soprattutto liguri, pemontesi, lombardi ed emiliani, e che si possono far risalire ad un preciso momento storico, quello della conquista normanna della Sicilia (tra la fine del XI sec. a tutto il XIII). I paesi che più a lungo hanno mantenuto le caratteristiche del galloitalico, soprattutto nella fonetica, sono: Aidone, Piazza Armerina, Sperlinga (nella foto particolare del Castello) e Nicosia, in provincia di Enna, e San Fratello, Novara di Sicilia, insieme ad alcune frazioni, in provincia di Messina.
LE ORIGINI
Le ragioni dell’origine dei dialetti galloitalici di Sicilia, denominati al momento della loro scoperta lombardo-siculi, vanno cercate nell’insediamento di coloni provenienti dalla medievale Lombardia (l’Italia settentrionale occupata dai Longobardi) al seguito dei Normanni, i conquistatori della Sicilia.
Il temine galloitalico ha soprattutto una connotazione linguistica per indicare il bacino di origine, l’Italia settentrionale, dove appunto si parlavano e si parlano dialetti il cui sostrato principale appartiene alle lingue celtiche, parlate da quei popoli che i romani chiamarono galli.
Ripercorriamo per sommi capi il contesto storico
La conquista normanna dell’Isola, compiuta da Ruggero d’Altavilla, dura circa trent’anni; inizia nel 1060, con la penetrazione nella parte nord-orientale e la presa di Messina, e si conclude nel 1091, con la resa di Castrogiovanni (1088) e la caduta di Noto (1091), le ultime roccaforti musulmane rispettivamente all’interno e sulla costa meridionale.
La conquista militare è compiuta ma restano ancora molte ragioni di crisi: gli arabi sono ancora numerosi e covano disegni di riconquista; la popolazione è stata decimata dalle guerre; l’Isola si presenta come un mosaico di culture in cui però l’elemento latino, a fronte di quello arabo e greco, è in netta minoranza.
Ruggero per dare risposta a tutti questi problemi rinforza l’elemento latino sia a livello culturale che demografico, pur rispettando la cultura e le competenze di arabi e greci. Così affida compiti di responsabilità ai suoi amici normanni e francesi e poi, in misura sempre maggiore, ai “lombardi” del continente che avevano contribuito alle guerre di conquista degli Altavilla, in Italia Meridionale prima e in Sicilia poi.
L’operazione fu favorita dal matrimonio dello stesso Ruggero con Adelaide, marchesa del Monferrato, della famiglia degli Aleramici, che portò al seguito i suoi fratelli e molti suoi conterranei; Ruggero e i suoi successori incoraggiarono, non solo l’arrivo sporadico di popolazioni provenienti dal nord, ma addirittura la conduzione di vere e proprie colonie, collocate in maniera strategica dalla costa settentrionale a quella sud-orientale passando per il centro, quasi a creare una zona cuscinetto, che impedisse agli arabi di oriente e occidente di riunire le proprie forze. Le comunità così costituite contribuirono anche a velocizzare il fenomeno di nuova latinizzazione della Sicilia e in compenso ottennero notevoli privilegi.
Le tracce di questa colonizzazione, ancora dopo quasi mille anni, si trovano nei dialetti; in alcuni paesi dell’entroterra come: Aidone, Piazza Armerina, Nicosia (nella foto il Duomo), San Fratello e Sperlinga, Novara di Sicilia , sono così evidenti che si parla ancora di colonie lombarde o per meglio dire galloitaliche. Tra gli insediamenti, infatti non tutti hanno mantenuto allo stesso modo gli elementi caratteristici, ciò è dovuto probabilmente alla quantità di coloni rispetto all’elemento indigeno e alla condizione di isolamento in cui sono rimaste alcune colonie rispetto ad altre più aperte all’influenza delle comunità viciniori.
Gli studiosi dei fenomeni linguistici per definire e differenziare la situazione linguistica di queste comunità, rispetto al complesso panorama dei dialetti siciliani, parlano di isole alloglotte, perché veramente straniera doveva risultare all’orecchio dei siciliani la parlata di queste popolazioni che definivano ora “francesi” ora “lombardi”.
LA DIFFUSIONE IN SICILIA
Le colonie sono collocate in maniera strategica dalla costa settentrionale a quella sud-orientale, passando per il centro, e costituiscono quasi una zona cuscinetto che permetteva ai Normanni di controllare sia gli arabi che i bizantini e di accelerare il processo di nuova latinizzazione e cristianizzazione della Sicilia.
I centri dove il gallo-italico è parlato, o dove è possibile ancora identificarne le tracce nella fonetica e nel lessico, sono distribuite nell’entroterra delle province di Messina, Siracusa e Catania e soprattutto nella provincia interna per eccellenza, Enna.
Possiamo distinguere i dialetti galloitalici in due gruppi.
Al primo gruppo appartengono quelle parlate che hanno mantenuto a lungo le loro caratteristiche grazie anche allo sviluppo del bilinguismo, frutto dell’adattamento alle parlate siciliane circostanti da una parte e dell’esigenza, dall’altra, di mantenere la propria identità. Sono in provincia di Messina: San Fratello, Acquedolci, Novara di Sicilia, Fondachelli-Fantina ed in provincia di Enna: Nicosia, Sperlinga, Piazza Armerina e Aidone.
Rilevanti tracce galloitaliche si trovano anche nelle parlate che appartengono al secondo gruppo: in provincia di Messina: Montalbano Elicona, Roccella Valdemone, S. Domenica Vittoria, Francavilla; in provincia di Catania: Randazzo, Bronte e Maletto sul versante nordoccidentale dell’Etna; Caltagirone, Mirabella Imbàccari e, in misura minore, S.Michele di Ganzaria,a sud; in provincia di Siracusa: Ferla, Buccheri, Càssaro; in provincia di Enna: Valguarnera Caropepe.
Altre colonie galloitaliche si trovano anche in Basilicata dove il galloitalico è parlato in due distinte aree linguistiche, entrambe in provincia di Potenza: la prima comprende i comuni di Picerno, Tito; la seconda i centri di Trecchina, Rivello, Nèmoli e San Costantino.
CARATTERI SPECIFICI
Il fattore fondamentale di differenziazione dei dialetti galloitalici rispetto ai dialetti siciliani è costituito dalla fonetica; da essa traggo infatti gli esempi sotto riportati, che non vogliono essere esaurienti a tracciare un quadro della specificità di questi dialetti, ma a darne un’idea complessiva.
La mutola
L’elemento che di primo acchito salta all’orecchio è la presenza della mutola, di questa vocale indistinta, quasi muta, ma della quale si percepisce lo spazio e l’intensità. Fin dall’antichità gli scrittori di cose in dialetto l’hanno resa con un apostrofo. La frequenza della mutola in fine di parola, che nell’aidonese diviene costanza, fa sembrare le parole tutte tronche; questa caratteristica ha influenzato l’etimologia popolare che da sempre ne ha attribuito l’origine al francese. Si può dire che nell’aidonese che non esista parola che non presenti almeno almeno una mutola, alcune in numero tale da rendere la parola scritta quasi illeggibile, un esempio per tutti: z’r’mìngh’, la cicatricola dell’uovo (lat. germinem).
Un’ altra caratteristica è costituita dal troncamento dell’infinito verbale che fa tanto “francese” il galloitalico; la forma dell’ infinito dei verbi è sempre e comunque tronca, si va dalle varianti dell’aidonese che ha mangè / mangèr’ e poi part’r , vinn’r (partire, vendere) , al piazzese mangè e part’r e al nicosiano e sperlinghese: ddurdiè, iarmè, r’spondö , fë (sporcare, apparecchiare, rispondere, fare)
L’ipercorrettismo
Un fenomeno molto importante che ha interessato tutti i dialetti galloitalici, come conseguenza della contiguità con il siciliano, in un perenne rapporto di amore odio, è quello dell’ipercorrettismo che si manifesta in due maniere opposte: come esagerato adeguamento alla lingua dominante, ipersicilianismo, o come difesa ad oltranza, ipergallicismo.
– come ipersicilianismo, cioè come esagerato cedimento alla varietà egemone, il siciliano; es.: la ” -ll- ” intervocalica diventa come nel siciliano ” -dd- “, quel suono particolare che i linguisti chiamano cacuminale, ma il processo di adeguamento va oltre cacuminalizzando tutte le ” l “, anche in posizione iniziale, siano scempie o doppie. Esempi: oltre a bedd’, beddu…abbiamo: dditt’ (letto),ddusgerdula (lucertola), ddumar’ (accendere), ad Aidone; ddett’, dd’sgerdula, ddumari, a Piazza Armerina; ddiettu e ddumè a Nicosia e Sperlinga.
– come ipergallicismo , cioè come esagerata accentuazione dei tratti propri:
a) nei dialetti di Nicosia e Sperlinga i nessi -mb- ed -nd-, non solo vengono mantenuti nelle posizioni del latino-romanzo, dove il siciliano, ma anche l’aidonese ed il piazzese hanno -mm- ed -nn-, ma anche le doppie ” -mm- ed -nn- ” del siciliano, anche di origine diversa diventano ” -mb- ed -nd- “. Così abbiamo sia sambucu, andandu, r’spondö (sambuco, andando, rispondere) ma anche stombicu e cambarera (stomaco e cameriera).
b) allo stesso modo nel dialetto di San Fratello la ” a ” per palatalizzazione diventa ” e ” in tutte le posizioni toniche e non soltanto, come ci si aspetterebbe, in prossimità di una consonante nasale.
Esaminiamo ora alcuni esiti particolari nel consonantismo:
cciov’r, ccioviri, cciou, contro il siciliano chjoviri l’ italiano piovere; cciò, ciov’, contro chiovu e chiodo, etc.
” z e zz ” (suono sonoro di zero): zenn’r’, zimm’ , frizz’r (genero, gobba, friggere) contro il siciliano: iènniru, immu, friiri )
” zz- ” (suono sordo di piazza, zio) zzinn’ra, zzipp’ (cenere, ceppo) contro il siciliano cinnira, ….)
” sg ” (suono più o meno come nel francese jamais, je) : disgìa, crusg’, stasgìa, brusgè (sic. diciva, cruci, staciva, bruciari);
” ngh ” cioè la velarizzazione della nasale in finale di parola singolare che termini per “-uno, -ino, ono, one, ano…”. Il fenomeno, appena percepibile nei dialetti di Nicosia e Sperlinga, è presente nella forma più arcaica nel piazzese: Mirringh’ (Merlino), radungh’ (raduno), e, in modo notevole, nell’aidonese arcaico : bardungh’ (basto), patrungh’ (padrone) z’r’mingh’ (cicatricola), purringh’ (verruca).
Importante! L’abbandono di questi esiti per quelli tipici del siciliano sono la caratteristica che più differenzia le parlate arcaiche o vernacolari da quelle sicilianizzate. (es.quasi tutti i termini dell’aidonese usati come esempio del consonantismo galloitlico nell’aidonese sicilianizzato suonano così: chiov’r, chjov’, jienn’r, jimm’, fr’jir’, cinn’ra, d’civa, cruc’, staciva, bardun’, patrun’, z’r’min’, purrin’….)
I galloitalici hanno un modo proprio di parlare l’italiano che li distingue dal resto dei siciliani e che li fa assomigliare per certi versi più ai sardi:
Caratteristiche dell’italiano dei galloitalici
• Pronuncia sonora di s-
• Incapacità a pronunciare bene le doppie
• Mancanza del rafforzamento fonosintattico : “l’ho visto” contro il sic. “l’ho-vvisto”.
CONSERVAZIONE, RECUPERO, TUTELA
Tra le popolazioni galloitaliche è stata sempre viva la coscienza che il dialetto costituisse la principale marca della propria identità. Oggi ci si dibatte tra due contrapposti sentimenti e comportamenti: il timore per la sua perdita che le porta a conservare e ad auspicare una qualche forma istituzionale di tutela e, dall’altra parte, la diluizione delle sue caratteristiche in una forma sicilianizzata che rispondeva e risponde alla necessità di comunicare ed interagire con il resto dei siciliani. L’esigenza di un essere riconosciute come minoranza linguistica è sfociata in un documento sottoscritto il 29 gennaio 2000 dalle Amministrazioni Comunali dei centri galloitalici di Sicilia, d’intesa con l’Università di Catania, la Società Italiana di Glottologia e il Centro Internazionale sul Plurilinguismo. I convenuti vi esprimono la propria protesta contro la mancata inclusione delle parlate galloitaliche della Sicilia nella legge N. 482/99 (contenente norme in materia di tutela della minoranze linguistiche storiche).
Esaminiamo qui il modo diverso in cui i parlanti dei vari centri si sono posti e si pongono nei confronti del galloitalico:
Ad Aidone e a Piazza Armerina già alla fine dell’Ottocento se ne registrava la sua marginalizzazione all’uso in ambienti familiari e rurali; aidonesi e piazzesi percepivano il loro linguaggio come arcaico e incomprensibile agli estranei, a quei forestieri dai quali venivano definiti sprezzantemente “i francisi”. La forma vernacolare, conservata nei documenti scritti (soprattutto composizioni poetiche dell’inizio del Novecento) e nell’uso attuale di pochi parlanti, aveva già subìto l’impoverimento morfologico e lessicale, a favore del siciliano, e mantenuto più a lungo gli esiti fonetici. All’inizio del secolo, nel 1902, Antonino Ranfaldi, un intellettuale aidonese, scriveva in un sonetto: “A ddinga ch’ogn giurn us a v’rsùra / Nan eia com a cudda c’tatìna ” (la lingua che ogni giorno uso in campagna, non è come quella cittadina), testimoniando di fatto una situazione di bilinguismo che ancora perdura: il vernacolo parlato in ambienti familiari e rurali e il “siciliano” riservato alla piazza e ai forestieri. Oggi naturalmente la situazione si è sempre più deteriorata, i parlanti spontanei sono ormai rarissimi, buona parte della popolazione ne ha una competenza passiva; è sempre più difficile trovare interlocutori validi per una ricerca sistematica, in ogni caso quello che viene fatto è un lavoro di scavo linguistico con tutti i rischi di manipolazione da parte di chi consapevolmente testimonia su qualcosa di estinto e sepolto da decenni. Eppure l’aidonese, forse più degli altri è stato fatto oggetto di studio, dalle testi di Laurea delle dottoresse Carmela Davide, Lucia Todaro, Francesca Ciantia, Sandra Raccuglia, al dizionario curato dalla stessa Raccuglia e pubblicato dall’Università, alla pubblicazione delle poesie di Vincenzo Cordova a cura del dott. Angelo Trovato per giungere infine ai proverbi e testi vari in aidonese pubblicati dal dott. Gaetano Mililli. (v. bibliografia) A Piazza Armerina, dove il vernacolo ormai non è più parlato comunemente, in compenso, si registra l’attività ininterrotta di un numero notevole di scrittori in galloitalico che, attraverso poesie, satire, cannovacci teatrali, tengono desta l’attenzione sul dialetto che considerano parte importante del loro patrimonio culturale e come tale degno di essere conosciuto da tutti ma in modo particolare dalle nuove generazioni; per fare solo alcuni nomi tra i contemporanei: Pino Testa, Aldo Libertino, Lucia Todaro, Tanino Platania, che intercalano la pubblicazione di testi con pubbliche letture e piece teatrali.
Diversa la situazione a Nicosia, Sperlinga, San Fratello e Novara di Sicilia e nelle varie frazioni, dove, seppur con diversa sfumature, il galloitalico è sentito come elemento di identità cittadina, parlato in tutti gli strati sociali. Certamente su questo atteggiamento estremamente positivo ha giocato molto la relativa vicinanza tra di loro di questi centri che ne ha fatto quasi un enclave in cui ciascuno riconosceva nel vicino un proprio simile rispetto al resto dei siciliani; è nata dunque la consapevolezza della lingua come elemento di coesione ed identità da una parte e di distanza e diversità dall’altra, che li ha spinti a proteggere e conservare piuttosto che ad aprirsi e a cedere. Il bilinguismo è presente anche in questi paesi, oggi, più che con il siciliano, con l’italiano, ma la “seconda lingua” è riservata ai forestieri, mentre tra paesani veri e propri e paesani galloitalici si predilige la “lingua madre”. Certo negli ultimi decenni anche qui c’è stato una inevitabile perdita di esiti lessicali per adattare la lingua alle esigenze della vita quotidiana che ha ha visto la sparizione di molti mestieri e ambientazioni. Ma anche qui a gelosi custodi dell’idioma amato si ergono poeti e scrittori in galloitalico. Solo qualche nome. A Nicosia il facondo Sigismondo Castrogiovanni e poi Francesca Fascetta, Grazia Gangitano, Enza Giangrasso, Santina Monsù; a Sperlinga: Antonino Lo Bianco, Giovanna Lo Bianco, Salvatore Lo Pinzino, Salvatore Lo Sauro, Maria Seminara; a San Fratello: Calogero Cassarà, Bettina Di Bartolo, Carmelo Lanfranco, Filadelfo Lo Paro, Serafina Miraglia, Grazia Regalbuto, Carmela Ricciardi, Rosalia Ricciardi e Benedetto di Pietro che, pur non abitando in Sicilia, continua a tenere desta la sua appartenenza con raccolte poetiche, favole e saggi. Di vitale Importanza l’opera svolta da molti decenni dall’Università di Catania con il professore Giorgio Piccito che ne è stato l’iniziatore, il prof. Giovanni Tropea che tanto ha contribuito a gli studi e alla divulgazione e oggi il prof. Salvatore C. Trovato, il prof. Salvatore Riolo.
Studio sul Galloitalico a cura di Franca Ciantia
Testi nei dialetti galloitalici
Traduzione della favola Il lupo e l’agnello di Fedro nei cinque principali dialetti galloitalici
Per avere un’idea di questi dialetti ed anche delle differenze che presentano fra loro, si propone la lettura della notissima favola di Fedro “Il lupo e l’agnello”, tradotta nei dialetti galloitalici principali.
La grafia usata non è quella della scrittura fonetica, ma quella comune dell’italiano adattata con le seguenti aggiunte:
l’apostrofo [‘] per la vocale centrale intermedia, la mutola;
le vocali [ö] ed [ë] per rendere le corrispondenti vocali chiuse che tendono molto verso [u] ed [i]
[ngh] per rendere la nasale velare in finale di parola
[dd][ɖ] per rendere la dentale retroflessa, propria del siciliano
il trattino [-] sostituisce l’apostrofo per non creare confusione con la mutola
[sg(i)] [ʒ], per rendere la fricativa postalveolare sonora
Testo di partenza in italiano
“Un lupo ed un agnello, spinti dalla sete, erano giunti allo stesso ruscello. Più in alto si fermò il lupo, molto più in basso si mise l’agnello. Allora quel furfante, spinto dalla sua sfrenata golosità, cercò un pretesto di litigio. – “Perché – disse – intorbidi l’acqua che sto bevendo?”
Pieno di timore, l’agnello rispose:
– Scusa, come posso fare ciò che tu mi rimproveri? Io bevo l’acqua che passa prima da te.”
E quello, sconfitto dall’evidenza del fatto, disse:
– Sei mesi fa hai parlato male di me.
E l’agnello ribatté:
– Ma se ancora non ero nato!
– Per Ercole, fu tuo padre, a parlar male di me – disse il lupo.
E subito gli saltò addosso e lo sbranò fino ad ucciderlo ingiustamente.
Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti.
Piazza Armerina
‘N lupu e ‘n agnèu, morti d’ sè, s’ giungìnu a bèv ö stiss sciùm.
N-ön capp’ gghj-’era u lupu, ciù sötta gghj-era l’agnèu.
Allöra dd’ f’tös du lupu, ch-avèa a panza vacanta,
cum’nzà a ‘nguiatèlu p’ sciarrèr’s cu jèu
-Oh d’sgrazià, t’ ddèvi d’ döcch ch’ m’ stè ddurdiànn tutta l-egua?
E l-aggnèu:
– Nan t’ ‘ns’ddiè, l-egua passa prima d’ n’ tì, tu ma ste ddurdiànn a mì!
U lupu, truvànn’s no tört, ggh’ diss:
– Oia s’ntùt ch’ tu, sèi mesgi com a öra, sparràvi d’ mì cu l-amisgi.
E jèu: – Ma chi stè ‘ncucchiànn’?
Jè, sei mesgi fà, manch avea nasciùit!
– Butàna di guai! Allöra fu dd’ bècch d’ to pà a sparrèr d’ mi.
E senza savèr nè ddèzz e nè scriv, cu ‘na granfaggnàda su spurpà d’ bedda e bedda.
Sti paröddi l-ana sènt ddi gent’ ch’ cunnà’nn’nu i ‘nucènti ‘ngiustamènt.
Aidone
Un lup′, mort′ d′ fam′ e sicch′ d′ sìa,
s’ truvau a b′v′rér′s ô sciùm′.
Z′rànn′ l-ugg′, vìtt′ ca nô basc′
gghj-era un gn′ddìt′ tèn′r′ e sav′rùs′.
Gghj′ fis′ p′tìt′, ma, p′ mìnt′s a post′ a cuscìnza,
z′rcàva na calùnnia p′ sciarr′iér′s.
Accuscì s′ mis′ a vusgiè.
– P′rchì m′ stai ddurdiànn′ l-eua mintr′ ìja stau b′vìnn′?
U gnedd′ scantait′, s′ r′cugghì nê robb′ e ggh′ r′spunnì:
– Tu m-aia p′rduné , ma com′ pozz′ ddurdièr′
l-eua a tìia ch′ sii′ ciù nô iaut’?
U lùp′, pùr′ r′canuscìnn′ ch-avìva tort′,
z′rcàu n-autra calùnnia e gghj′ dìss′:
– Sii misg′ com′ a ura tu m′ murmuliàv′t′!
U gn′ddìtt′ mort′ nâ pedd′ r′spunnì:
– Voss′gn′rìa iav′ tort′,
ija atànn′ manch′ ava nasciùit′!
– Buttana dû nfern′ ! Allura fu ta patr′ ch′ sparrau d′ mija!
E d′sginn′ accuscì, n-on ditt′ e un fait′,
u granfà e sû spurpà, pur′ savinn′ ch′ nan aviva curpa.
St′ parodd′ s′ l-àn-a sìnt′r cudd′
ch′ cunnàn′n′ i nuccìnt′, cusànn′l′ ngiustamint′
Nicosia
Un lupö e n-gneu mort’ d’ së, avìenu r’vat’ nö stissu sciumö:
chiù suva s’ f’rmà u lupö , chjù sötta s’ m’ttött’ u gneu.
Allura ddu mascarà, ch’avia simpö famö , z’rcà na scusa p’ sciarrièr’s.
– P’rchì ddurdìj’ l-egua ch’ stagö b’vëndö?
U gneu s’ cagà d’ ncou du scant’ e ghj’ r’spundëttö:
– M’ dai scusè, ma comö pozzö fë chêu tu m’ sti d’sgiendo.
Iu bevo dd-egua ch’ passa prima dö nda tu!
E cheö v’dëndö ch-avia torto ghj’ r’spundëttö:
– Sej mis’ com-ora sparrast’ d’ më.
Un gneu p’ d’fend’s ghi’ dëssö.
– Ma sa iö n-avia mancu nasciò!
– Porch’ d’ zzà e dd’ ddà; fö to paddö ch’ m’ mörmöriava.
E mentö d’sgia s’ parodd’ ghi’ sautà d’ ncoö e su mangià a muzz’cö.
Su cuntö è scritto p’ chei
ch’ vonö avera sempo rasgiöni
e ch’ sâ pigghjönö co chëo ch’ sö chjö deböl’.
Sperlinga
N-lupö e n-gneö, pa fortë së, s’ trövanö no stissö vaddön;
ö lupö stasgìa na partë d’ d’ söva, ö gneö na partë d’ d’ söta.
Quandö dd’ lupö s’ v’ntià dd’ pov’rö gneö,
z’rcà na scusa p’ iarmè na sciarra.
– P’rchè, – ghj’ dissö – m’ nddurdì l-egua mëntr’ ca stagö b’vendö?
Dd’ gn’ddotö, tuttö scantà, gh’ r’spöndëtö:
– Ma comö t’ pozzö n-ddurdìè l’egua se sögnö d’ d’ söta?
Ö lupö, n’n savendö r’spöndö, n-v’ntà naöta scusa p’ sciarriessë e ghj’ dissö:
– Sieë mësgë ndarrìa, tu sparrastë da mi.
E dd’ m’schin d’ gneu r’spöndët’:
– Ma ia, sieë mësgë ndarrìa, navìa manco nasciuitö!
– Allora – r’plicà ö lupö – dö to pà ca antandö sparrà d’ mi.
Mancö ghiò f’nëtö d’ dì cö na granfada ö chiappà e sö mangìà.
St’ cuntö fö n-v’ntà p’ dd’ ch’stiàë ca cö scusë faëzë,
ngannë e mbruoggujë s-approffìt’nö de nöcenti.
San Fratello
N dauv e ng-agnieu, punturiei d’ la sai, avaiu arr’vea ô stiss vadan.
Chjù n saura s-aff’rmea u dauv,
mantr ch’ d-agnieu s’ mies assei cchjù n giusa.
Agliàuri cau furfänt, murdù dû sa grean ptit,
zz’rchiea na scusa p-acc’m’nterlu.
P’rcò — ghj’ diess — m’ ntuòrbuli d-eua ch’ m’ stäch buvann?
Tutt scantea, d-agnieu ghj’arpunò:
– Scusa, cam pazz fer s-azzant ch’ m’ rr’mpruovi?
Iea bav d-eua ch’ pässa prima ana sai tu.
E cau, scunfitt p’ la munzagna, diess:
Siei masg fea tu pardest meu di iea.
E d-agnieu ghj-arbattò:
Ma se ancara iea n-avaia meanch anasciù!
Parch d’ Giura, agliauri fu ta pätri a sparderm’.
E subt ghj’ satea d’ncadd e s-u sbranea.
Sa faräbula è scritta p’ quoi ch’ suotamottu i nnuciant cun scusi feuzzi.
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