Storico presidente dell’Ordine dei giornalisti, che ha guidato per vent’anni,
ha attraversato da cronista gli anni bui di Milano: dallo strapotere mafioso alla
strage di Piazza Fontana, seguendo da vicino il crack Sindona e l’esplosione
del terrorismo. A lui si devono i testi fondamentali della professione,
sui quali hanno studiato migliaia di aspiranti professionisti
Le sa tutte. Veramente tutte. In che anno sono iniziati i moti risorgimentali a Napoli? Nel 1820. E qual è la data dello storico incontro fra Garibaldi e Re Vittorio Emanuele a Teano? Il 26 ottobre 1860. Passiamo all’editoria: quando è nato il primo giornale? La Einkommende Zeitungen fu fondata nel 1650 a Lipsia. Nel 1664 nacque il più antico quotidiano italiano, la Gazzetta di Mantova, che nel 1866 uscì con cadenza giornaliera. Perché le date, secondo lui, fanno capire bene la storia. Franco Abruzzo probabilmente non è noto al grande pubblico, nonostante sia stato annoverato tra i 5.026 “italiani notevoli” nel Catalogo dei Viventi dell’editore Marsilio. Di certo lo conoscono perfettamente gli appartenenti alla categoria, l’Ordine dei giornalisti della Lombardia, che ha guidato come presidente per vent’anni; il più grande ente pubblico di categoria del nostro paese, si legge sul suo sito. Già, perché Abruzzo, è tutt’altro che in pensione. Ha un indirizzo internet, molto seguito dagli addetti ai lavori, e una newsletter, che invia ad oltre 80 mila persone, con informazioni preziose, sull’editoria. Il settore, come si sa, sta attraversando una profonda crisi: da 8 milioni di copie vendute nel ’90 a tre e mezzo nel 2014. «La carta stampata resterà una nicchia – dice -. I giornali, per me, sono fregati dal loro gigantismo e non rispecchiano più la realtà sociale del Paese». «I giornalisti devono tornare in mezzo alla gente – spiega Abruzzo, precisando: «Io vengo da un giornalismo militante che amava cercare quello che c’era dietro la notizia. Resto convinto che se noi diamo un’informazione completa e approfondita, la gente torna a leggere i giornali». Il “presidente storico” è venuto ad insegnare i segreti del giornalismo ai ragazzi di San Patrignano. «Sono un popolo di persone che è in una fase di grande crescita e di riscatto e questo mi ha emozionato, perché loro sono il nostro futuro».
Ho letto da qualche parte che sei un uomo del Sud, in pratica un terrone
È una cosa a cui tengo molto. Mio padre era capufficio alle Poste di Cosenza. Ogni giorno gli regalavano un pacco di quotidiani. Li guardavo tutti, anche se capivo poco. Soprattutto quelli di Roma e il Corriere dello Sport. Eravamo tifosi del grande Torino. E amavamo il ciclismo: ero un bartaliano sfegatato. Devo a mio padre la passione per i giornali.
Ma, a questo mestiere come sei arrivato?
Al liceo classico c’era un giornalino dove scrivevamo tante sciocchezzuole: recensioni di film, un po’ di sport, storielle della scuola. Siamo andati avanti tre numeri. Intanto avevo conosciuto qualcuno alla redazione del Tempo, che allora aveva le pagine calabresi. Mi davo da fare col giro della cronaca nera: ospedale, polizia, carabinieri, tribunale. Si comincia così, no?
La cosiddetta gavetta…
Ero amico di Cesare Lanza, e lo sostituii come corrispondente di Tuttosport. Nel frattempo collaboravo anche con la rivista del Touring Club, con la quale avevo curato un’inchiesta sulla dispersione scolastica ed una sulla povertà. La mia regione è uscita dal Risorgimento mangiando pane e castagne. I Borboni sprecavano tutto in gran feste, il resto era in mano ai preti. Re Ferdinando perse un’opportunità storica quando gli dissero nel 1835: “Maestà, prenda la guida del movimento italiano per la libertà. Lui rispose: “No, i miei confini vanno dall’acqua santa all’acqua salata”, dal Vaticano al Tirreno. Così si è fregato.
Quest’ansia di conoscere ti ha aperto gli occhi sul mondo attorno?
Ho capito che a Cosenza non c’erano prospettive: il giornalino è morto dopo pochi numeri. C’erano i giornali locali con i quali io collaboravo. Poi è nato Italia Sud, che era un bel settimanale. Scrivendo i miei articoli ho scoperto la questione meridionale, che mi appassionava molto. Leggevo il grande meridionalista Giustino Fortunato e “Nord e Sud” di Francesco Compagna e scoprii che contadini avevano accolto Garibaldi in festa perché era il liberatore, pensando che avrebbe dato loro le terre. Invece, le ebbero i soliti baroni: passarono dai Borbone ai Savoia. Da Cosenza sono partito con la 600, che non avevo ancora finito di pagare. Guadagnavo poco: 15 mila lire al mese, che se andava tutto bene diventavano 25 mila. Per noi calabresi emigrare è un fatto normale. I miei parenti sono finiti in Brasile, in Argentina, negli Stati uniti.
A Milano frequentavi l’università?
Mi avevano “assunto” ma come abusivo al Giorno. Lavoravo e studiavo. Sono stato il primo a veder riconosciuti quegli anni dall’Ordine dei Giornalisti. Mi sono laureato in Scienze politiche, discutendo la tesi sulla guerra d’Algeria vista attraverso Il Giorno. Era una tesi un po’ risorgimentale, perché il popolo algerino aveva combattuto, ma avendo la straordinaria fortuna di incontrare sulla sua strada un grande francese che era Charles De Gaulle. Era un nazionalista, ma rispettoso della volontà dei popoli. Dall’Algeria, De Gaulle ne è uscito con onore.
Intanto ti facevi le ossa. Qual era il clima di quegli anni?
Mi occupavo di cronaca giudiziaria: là ho fatto 20 anni fuori e dentro i tribunali, seguendo le grandi storie milanesi, dalla mafia al crack di Sindona e alla morte di Ambrosoli, da Vallanzasca alla Banca dell’Agricoltura, fino agli esordi del terrorismo. Avevo studiato molto e all’appuntamento sono arrivato preparato. Le gomme bruciate allo stabilimento Pirelli di Bollate furono il primo episodio che ricordo.
Stava preparandosi qualcosa di terribile, che in pochi avevano previsto
A Sesto San Giovanni, dove ancora abito, si vedevano le prime scritte sui muri. E si capiva che c’era una brutta aria. Ricordo il rapimento di un dirigente dell’Alfa Romeo da parte della colonna lodigiana delle Br. Mi mandarono una fotografia: c’era la foto allucinante di quel povero cristo in un furgoncino bianco. L’abbiamo subito data alla polizia. Lavoravo nella redazione della provincia, e ogni giorno mi indicavano una diversa zona dove andare.
Scrivevi ogni giorno?
Il direttore Italo Pietra diceva: “La storia del mondo la puoi raccontare in 50 righe”. Noi avevamo una tecnica dell’incipit o del lead: tu in cinque righe dovevi rispondere a queste domande: chi, che cosa, dove, quando e perché. La notizia doveva essere secca. Il Giorno ha anche rinnovato il linguaggio della stampa italiana, con titoli fatti un certo modo. Sulla provincia non avevamo avversari. Il Giorno era diffuso in campo nazionale, ma l’obiettivo di Pietra era quello di radicarsi in Lombardia, nella terra dove si stampava. Quindi noi andavamo a caccia di notizie di cronaca locale alternative a quelle pubblicate dalla stampa locale. Una volta Gaetano Afeltra, che aveva preso il posto di Pietra nel 1972, mi disse “Abbrù, fai nu titolo croccante, cazzuto”.
Un lavoro quasi da investigatore, a stare dietro a tutto…
Una volta sono andato dal procuratore di Lodi: “Dottore – gli ho detto – lei è siciliano ed io calabrese, diamoci una mano: mi dica un po’, se è possibile che a Lodi non ci siano notizie?”. Mi guardò e disse: “Abbrù, vai al carcere di Codogno”. Andai e lo trovai chiuso. Tutte le guardie erano state arrestate perché portavano le donnine della via Emilia nelle celle e facevano i festini con i detenuti. Prima pagina. A Cologno Monzese, cittadina di 5mila abitanti, si era gonfiata di meridionali; siciliani, calabresi, pugliesi fino ad avere una popolazione residente di 40mila abitanti. I bambini delle elementari sognavano il mare nei loro dipinti oppure raffiguravano le siringhe sparse nei prati o i cavi dell’alta tensione.
Anche un parroco si era trasferito a Cologno con tremila parrocchiani e festeggiavano i loro santi isolani. Tutte storie da una pagina. A Monza, ad esempio, nella scuola De Amicis non volevano i figli dei terroni come anche alla Candy. Io, su queste storie, sparavo a zero e succedevano casini inenarrabili. Monza era una città chiusa! Ho visto le scritte: “Non si affitta ai meridionali”. A Monza ho preso il Giorno a 500 copie e l’ho portato a 5mila al giorno.
Ma come è successo che da cronista giudiziario sei passato ad occuparti di temi legislativi?
Io sono un passionario e amo molto il mio lavoro. Questa nostra professione è bella perché ti consente un aggiornamento continuo. Tratti una casistica enorme. Ad esempio la droga: quando quello … di Pannella dice che la marijuana non fa niente, mente. Ho visto i ragazzini passare dalla marijuana all’eroina e trovarli stecchiti al parco Lambro.
Hai fatto anche il “sindacalista” con Walter Tobagi?
Ci opponevamo allo strapotere del Pci in redazione, che pretendeva di egemonizzare tutto. Con Tobagi abbiamo rovesciato la maggioranza dentro il sindacato, mettendo i comunisti in minoranza. Con chi ci siamo alleati? Con colleghi di estrazione liberale. Ci chiamavano “socialfascisti” con linguaggio staliniano Il 14 settembre ‘78 abbiamo eletto Tobagi presidente del sindacato regionale dei giornalisti. Ci attaccarono dicendo che Tobagi e Abruzzo erano agli ordini di Montanelli e Craxi.. In democrazia vince chi ha i numeri, diceva Churchill, «è il regime più imperfetto che c’è, però uno migliore non ce n’è». Il clima era questo e si avvertiva.
E siamo ai secondi anni ’70, Tobagi viene assassinato da una cellula di brigatisti. Alcuni erano figli della Milano bene
Dopo il rapimento Moro arrivò il generale dalla Chiesa, che guidò l’offensiva dello Stato. La colonna invincibile di Genova era stata decimata e lui scrisse quel 28 marzo 1980 il famoso articolo “Non sono samurai invincibili”. Gliela fecero pagare. Sgomento, tristezza, paura: a Walter Tobagi volevo veramente bene. Anch’io, nel mio piccolo, ho passato del tempo nella paura. Nessuna scorta, non c’erano uomini. Un ufficiale dell’Arma disse a me e a Tobagi: “Uscite di casa dopo le 9, quelli sparano tra le 8 e le 8,30”. Quando mi occupavo di mafia a Milano (Liggio&C.) un avvocato famoso andò dall’amministratore del mio giornale dicendo: “Abruzzo è troppo duro”, perché avevo costretto la procura generale a costituirsi contro Sindona “nell’interesse della Nazione”. Gli spiegai: “Ingegnere, io sto con i carabinieri, sto con il Parlamento. Noi siamo un giornale pubblico: con chi stiamo? Stiamo con i carabinieri, contro i mafiosi e i delinquenti”. “Sapevo che mi avresti detto così”, mi rispose. C’era una lotta mortale fra i due blocchi e la divisone del mondo passava all’interno del nostro paese: chi si finanziava in America, chi si finanziava in Russia e chi si finanziava in Italia. Non era un bel vivere.
L’impegno con l’Ordine dei giornalisti come è iniziato?
È stato facile per via della mia preparazione giuridica. l’Ordine è un luogo di competenza, non è un posto dove vai e improvvisi: si assumono decisioni para-giudiziarie. Ho cominciato a scrivere le delibere con l’anziano presidente Carlo De Martino, continuando a lavorare al giornale. Nell’ 83 sono passato al Sole 24ore , dove ho concluso la mia carriera come caporedattore centrale. Quando mi dicevano che eravamo il giornale di Confindustria, ho sempre risposto: . “Siamo noi che diamo soldi alla Confindustria, perché il Sole è una fabbrica di quattrini”. Allora era vero.
Hai mai preso denunce?
Ovviamente sì, ma spesso sono stato assolto addirittura in istruttoria. Fedina penale pulitissima. Non una macchia. Puoi anche diffamare qualcuno, ma a una condizione: che quello che scrivi sia vero.
Mi riassumi in tre parole gli aspetti fondamentali della deontologia dei giornalisti?
Per me è semplice, perché appartengo a una generazione che non aveva carte deontologiche da osservare. La carta dei doveri era la nostra coscienza. Che si riassume in questo: tratta tutti come tratteresti tuo papà, tua mamma e tua sorella. Ho spiegato tutto. Il cristianesimo ci ha dato dei valori che sono diventati legge. L’articolo 2 della Costituzione, ha una radice cristiana e socialista. Se hai rispetto per la dignità della persona che hai davanti, tu come ti comporti?
Dov’è che è necessario fermarsi?
La Cassazione dice che tu quando scrivi la notizia devi accertare che sia di interesse pubblico, che sia vera e che sia scritta in modo civile. Questi sono i tre capisaldi. Ma c’è un quarto principio, che è nel codice sulla privacy: l’essenzialità dell’informazione. Anche il peggiore degli assassini è sempre una persona.
Cosa pensi della crisi dell’editoria e della carta stampata? E a un ragazzo che vuole scegliere questo mestiere?
Io sono stato il promotore e il sostenitore delle scuole di giornalismo, cui ho dedicato 22 anni della mia vita, dicendo sempre ai giovani che ci devono pensare: se hanno la vocazione possono tentare, ma devono farsi un esame di coscienza sulla preparazione complessiva e sullo spirito di sacrificio. Un giornalista deve essere curioso, molto attento a ciò che sente e vede, disposto a fare sacrifici, perché la nostra non è una bella vita.
INTERVISTA A FRANCO ABRUZZO – testo di Carlo Forquet – SANPA (Il giornale di SanPatrignano) n. 5/2015