Come semi trasportati dal vento e disseminati ai quattro angoli del globo, nei quali trovarono terreno fertile, germogliarono e diedero dei frutti. I flussi migratori, che portarono i nostri avi in giro per il mondo, si intensificarono verso la fine dell’Ottocento.
Quella dell’emigrazione è una pagina della nostra storia che meglio dovremmo conoscere per capire, ricordare, amare e rispettare. Non sempre “zii d’America” arricchiti e vincenti furono coloro che partirono alla volta dell’ignoto. Esiste un’altra realtà a molti di noi sconosciuta e drammatica, che potrebbe aiutarci anche a convivere meglio con gli immigrati che oggi inondano le nostre città, annullando ogni impulso xenofobo, sconfiggendo i nostri pregiudizi ed evitando così di condannare con troppa facilità certi comportamenti, non sempre giustificabili, che sono appartenuti probabilmente anche ai nostri trisavoli, perché non è vero che quando “noi” eravamo gli immigrati degli altri Paesi eravamo migliori o più amati.
La storia dell’emigrazione italiana è comunque una storia carica di verità e di bugie, in cui non sempre si può dire chi avesse ragione e chi torto. A tal proposito è davvero sorprendente il quadro delineato da Gian Antonio Stella nel libro L’orda, quando gli albanesi eravamo noi, in cui documenti, aneddoti, storie ignote, ridicole e sconvolgenti ci sbattono in faccia delle verità scomode e terribili, come quelle che spesso oggi rinfacciamo agli immigrati che trovano nel nostro Paese la loro America.
Eravamo sporchi? Certo, ma furono infami molti ritratti dipinti su di noi. Era vergognoso accusarci di essere tutti mafiosi? Certo, ma non possiamo negare d’avere importato noi negli States la mafia e la camorra. La verità è fatta di più facce. Sfumature. Ambiguità. E se andiamo a ricostruire l’altra metà della nostra storia, si vedrà che l’unica vera e sostanziale differenza tra “noi” allora e gli immigrati in Italia oggi è quasi sempre lo stacco temporale. Noi abbiamo vissuto l’esperienza prima, loro dopo. Punto.
Tutto questo, però, per l’autore del libro non significa di certo via libera al buonismo incondizionato, esortazione all’apertura totale delle frontiere o all’esaltazione scriteriata del melting pot. Tutto ciò vuole indurre, piuttosto, alla riflessione e al rigetto di ogni forma di razzismo, che sembra crescere sempre più in una società come la nostra, rimuovendo una parte del suo passato.
Uno dei film più rappresentativi della condizione dell’emigrante siciliano di fine Ottocento, Nuovomondo di Emanuele Crialese, vincitore del Leone d’argento a Venezia, da qualcuno è stato definito più che un film una poesia, recitata non in italiano, bensì in siciliano e distribuita con i sottotitoli. La scelta del dialetto è significativa, perché permette a tutti i siciliani nel mondo di chiudere il cerchio del loro peregrinare, evocando ed esorcizzando il dramma che più di ogni altro ha segnato la loro storia.
Da quando ho visto il film, ogni tanto la sera mi soffermo su di un baule da viaggio di fine Ottocento che tengo ai piedi del letto. Su di esso sono ancora incise con un punteruolo le iniziali della mia trisavola che, dopo essere emigrata negli Stati Uniti con la famiglia, decise di tornare in Sicilia. Acquistò il baule, lo riempì e lo affidò ai facchini. Come esso sia arrivato a me, tra le due guerre mondiali e la sistematica distruzione di tutto ciò che sapeva di siciliano e di popolare tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento, non saprei dire.
Ecco cosa eravamo. Ed ecco cosa siamo diventati. Improvvisamente ignoranti e smemorati.