Alla fine del mese scorso ho appreso da un sito di informazione locale della avvenuta ricostruzione del «martirio di Filippo Vizzini, eroe valguarnerese della seconda guerra mondiale». La storia che veniva esposta, però, non mi aveva convinto per almeno due ragioni, tra loro interconnesse. La prima, di tipo metodologico, attinente alla debolezza di una ricostruzione basata solo su un – comprensibilmente – approssimativo racconto carpito alla «novantenne sorella dell’eroe», la quale, tra l’altro, non può nemmeno essere definita “testimone” degli eventi illustrati, visto che – come si apprendeva dallo stesso articolo – erano stati, in larga parte, riportati da altri. La seconda, invece, legata ad una basilare conoscenza degli snodi più significativi del secondo conflitto mondiale, rispetto a cui la descrizione dei fatti sembrava completamente avulsa. Così, seguito da un mio fraterno amico, Carmelo Albanese, ricercatore presso l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana – uno che, dunque, storico lo è di professione –, ho intrapreso un percorso di ricerca bibliografica e archivistica che non ho certo la presunzione di definire concluso (perché nulla lo è nell’indagine scientifica), ma dal quale, allo stadio a cui sono giunto, emerge un quadro diverso della vicenda del nostro concittadino, il quale incrocia indubbiamente la Grande Storia, ma rivestendo un ruolo diverso – e il alcuni frangenti diametralmente opposto addirittura – da quello descritto. Ma partiamo dall’inizio.
Nell’articolo si afferma che Filippo Vizzini si sia arruolato come volontario nelle fasi finali della seconda guerra mondiale. Ciò non è assolutamente vero, come si evince dalla documentazione conservata presso il Centro Documentale militare di Catania, secondo cui lo stesso, svolto il servizio militare obbligatorio fino all’ottobre 1942, viene richiamato alle armi «ai sensi della circolare n. 219 del 1943» e, inquadrato nel 3° Reggimento “Savoia Cavalleria”, «dal 28-05-1943 al 12-09-1943 – quindi ad ancora due anni dalla fine del secondo conflitto mondiale – ha partecipato alle operazioni di guerra svoltesi in territori greci-albanesi». Del resto, anche ammettendo che Vizzini si sia arruolato successivamente, si rileva una profonda contraddizione con la tesi complessivamente avanzata: difatti, in che modo si concilia il propugnato “status” di “martire del nazifascismo” con quello di soldato del Regio Esercito Italiano che, da volontario, si arruola proprio quando gli schieramenti appaiono ormai delineati e le sorti della guerra evidenti?
Dalla documentazione consultata è altresì possibile ricostruire il delicato passaggio che si consuma all’indomani del proclama con cui Badoglio rende noto l’armistizio di Cassibile. Come detto, Vizzini si trova nei territori greco-albanesi; il 7 marzo del 1944, a seguito dell’emanazione dei cosiddetti “Bandi Graziani” – con cui il ministro della Difesa della RSI chiama alle armi le classi 1922, 1923 e 1924, preannunziando per disertori e renitenti la pena di morte – viene richiamato, e poco meno di due mesi dopo giunge a Vercelli presso il Centro Costituzioni Grandi Unità, struttura in cui affluiscono i coscritti destinati alle quattro divisioni dell’Esercito Nazionale Repubblicano che vengono costituendosi già dal novembre 1943 in Germania. L’inesorabile susseguirsi di eventi che si consumano in quella convulsa fase, rendono inesatta la tesi che vuole Vizzini «prigioniero in un campo di sterminio tedesco». Difatti, ciò che nell’articolo viene erroneamente definito «campo di sterminio» è in realtà il campo d’Istruzione di Heuberg, in Pomerania, il cui compito è preminentemente legato ad operazioni di natura militare. All’interno del campo, a seguito degli accordi tra Hitler e Mussolini in merito alla ricostruzione di un esercito alle dipendenze del Governo di Salò, si formano le divisioni dell’esercito “repubblichino”, i cui componenti sono per l’appunto addestrati dalle forze tedesche. Vizzini, pertanto, nel maggio del 1944 parte alla volta della struttura militare tedesca non in qualità di “internato”, ma poiché inquadrato nelle file del neonato esercito di Mussolini.
In Germania Vizzini viene assegnato al 1° Reparto Artiglieria della Divisione Italia, dove, nella primavera del 1944, inizia l’addestramento. Composta da figure di provenienza diversa, in luglio la Divisione sfila dinanzi al Duce, ricevendo a fine parata le bandiere di combattimento dei vari reggimenti. Posta sotto il comando del maresciallo Graziani con lo scopo di essere impiegata soprattutto nella lotta antipartigiana, nello stesso anno il reparto rientra in Italia, anche se con grandi difficoltà determinate dalla carenza di mezzi di trasporto adeguati e dai bombardamenti aerei alle linee ferroviarie. La zona operativa della Divisione Italia è il parmense, area che in seguito alla stabilizzazione della “linea Gotica” assume un rilevante interesse strategico. L’occupazione di Collecchio – comune attraversato dalla statale 62 della Cisa, dunque via di comunicazione fondamentale per collegare la via Emilia con i passi appenninici – era iniziata già nel 1943, ma la Divisione di cui fa parte Vizzini vi arriva solo nell’agosto del 1944.
La ricostruzione sin qui esposta, nel chiarire la ragione della presenza di Vizzini a Collecchio, confuta la suggestiva immagine del soldato sbandato che «lacero ed emaciato» giunge – Come? Perché? – nella cittadina emiliana e successivamente viene nascosto da una coraggiosa donna del luogo. Conseguente è, altresì, non solo la categorica esclusione di una presunta fuga del militare valguarnerese dal campo tedesco, come invece sostenuto nell’articolo, ma anche la sostanziale infondatezza della ricostruzione del percorso compiuto da Antonio Loddo, compagno d’armi di Vizzini e a quest’ultimo accomunato dall’appartenenza alla Divisione Italia e, in seguito, dalla fatale sorte.
Il racconto lascia perplessi anche per ciò che riguarda la fuga della «famiglia turca». In primo luogo poiché la natura del Campo di Heuberg rende inverosimile la convivenza tra prigionieri civili e prigionieri militari. In secondo luogo in quanto risulta paradossale che una famiglia di nazionalità turca fuggita da un campo tedesco, in un’Italia devastata dalla guerra e occupata dall’esercito nazista, compia un viaggio dalla Germania all’Emilia Romagna, ritrovando proprio lì (ironia della sorte!), a Collecchio, il coraggioso soldato che ne aveva favorito la fuga. Tutto può succedere naturalmente, ma la documentazione raccolta e, più in generale, la bibliografia sul tema, rendono inverosimile per i coniugi turchi la collocazione geografica e temporale indicata dalla sorella di Vizzini.
Tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45 la grande dispersione dei nuclei militari operanti a Collecchio favorisce l’allentamento della disciplina e facilita la propaganda dei civili e dei partigiani per la diserzione. Negli ultimi giorni di guerra a Collecchio cadono numerosi militari italiani, vittime del piombo dei reparti di stanza, quasi sempre bersaglieri della Divisione Italia che cercano di fuggire. Vizzini è tra questi. Dalle carte custodite presso l’Archivio Storico del Comune di Collecchio si apprende che l’esecuzione, ordinata dal Tribunale Militare del Comando, viene eseguita dai tedeschi la mattina del 2 febbraio del 1945, nel recinto della centrale Villa Paveri. Almeno su tale tragico epilogo, la ricostruzione proposta coincide con la documentazione da me consultata.
Ogni racconto di vita è una “costruzione”, e ognuno ha il sacrosanto diritto di elaborare e rielaborare la propria storia. Chi, però, si propone di ricostruire una vicenda del passato dovrebbe innanzitutto scrupolosamente ricercare e accuratamente vagliare le fonti. In mancanza di ciò si scivola nell’apologia, raccontando una storia di cui si è già predeterminato l’esito. Tutto è lecito, naturalmente, ma non credo che questo sia un servizio utile alla comunità a cui ci si rivolge e, più in generale, alla storia locale.
Calogero Laneri
Laureando in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionale presso l’Università degli Studi di Parma
Riceviamo e pubblichiamo