Non si dovrebbe – non si deve – mai farsi vanto della cultura. Soprattutto nei confronti di coloro che di cultura, nel senso di istruzione, ne hanno meno di noi. Dovrebbero ricordarlo sempre gli intellettuali (soprattutto quelli di sinistra); e coloro che svolgono, a vari livelli, un lavoro intellettuale. Per diversi ordini di motivi.
– Uno dei più immediati è che i componenti delle categorie sociali dei meno istruiti, sono spesso, purtroppo, quelli che coincidono con i poveri, gli sfruttati, i diseredati. Cioè con coloro che la sinistra (e i suoi intellettuali) dovrebbero avere quali alleati, e non come coloro da cui distinguersi, e, ostentatamente, prendere le distanze.
– Un secondo è che la conoscenza è, di per sé, uno strumento di potere. Che, se da un lato dà la possibilità di cambiare in meglio il mondo, dall’ altro, (soprattutto quella tecnico-scientifica) come è noto, ha la possibilità di distruggerlo. In special modo quando, concentrata in poche mani, ci inebria, ci induce ad innamorarci di noi stessi, ci porta al delirio di onnipotenza.
– Inoltre, più semplicemente, dovremmo essere grati ai meno istruiti, ai non intellettuali, a coloro che svolgono un lavoro manuale in genere: sono coloro che ci hanno permesso e ci permettono la nostra cultura-istruzione. Con il loro lavoro manuale dedito alla produzione del necessario, ci liberano dal “regno della necessità”. E ci permettono di adire, per quanto umanamente possibile, al “regno della libertà”, dell’ espressività, delle scelte.
Come scrisse Albert Einstein, e come dovremmo ricopiare – o almeno pensare – tutti noi (intellettuali e non!) “Cento volte al giorno ricordo a me stesso che la mia vita interiore ed esteriore sono fondate sulle fatiche di altri uomini, vivi e morti; e che io devo sforzarmi al massimo per dare nella stessa misura in cui ho ricevuto.”
Sono altresì abbastanza note le parole di P. P. Pasolini, che, riferendosi alla “battaglia di Valle Giulia”, a Roma, dell’ 1 Marzo 1968, scrisse che simpatizzava e solidarizzava con i poliziotti, perché “I poliziotti sono tali perché non hanno potuto diventare degli studenti; mentre gli studenti sono tali perché non hanno dovuto diventare dei poliziotti.”
Permettendoci di interpretare queste citazioni, diciamo che la vita è (non soprattutto ma) prima di tutto, fisicità, materialità, organicità. Nel senso che, come è ovvio, prima di scegliere, di liberarci, di librarci, di sognare, di godere delle sue più belle manifestazioni e sembianze, dobbiamo attraversare le sue necessità; superare le molteplici barriere che si frappongono tra noi e il mondo; tra le nostre persone fisiche e i nostri “oggetti necessari”.
Di conseguenza, abbiamo tutti bisogno di chi produce il cibo che mangiamo, di chi costruisce le nostre case, di chi ne permette il collegamento con i servizi essenziali e con i luoghi di lavoro, di chi presiede alla nostra sicurezza e incolumità psico-fisica, di chi ci viene in soccorso nelle emergenze. E l’ elenco potrebbe continuare a lungo.
Dunque, possiamo svolgere i nostri lavori intellettuali soltanto se, e nella misura in cui, i lavoratori manuali ce lo “permettono”. E in modo continuativo. Sappiamo bene come un semplice sciopero o una semplice alterazione temporanea del clima possano paralizzarci.
Siamo dunque dipendenti dai nostri consimili meno fortunati e privilegiati dal punto di vista lavorativo. E siamo tutti, noi e loro, dipendenti dalla terra, che ci alimenta e spesso ci ferisce.
Appare per questo necessario un atteggiamento e un comportamento di (molta) maggiore umiltà, consapevolezza e memoria.
La memoria di quando anche i nostri genitori, nonni, o chi per loro, erano “di umili origini”; la consapevolezza di quanto siamo privilegiati anche ogni volta che accendiamo la luce elettrica premendo un interruttore; l’ umiltà di chi riconosce e accetta il dato inequivoco per cui è la terra ad averci “prestato alle stelle”, e non viceversa (umiltà, da “humus”= terra). La terra intesa anche come luogo fisico-geografico-sociale che, con i suoi a volte imperscrutabili scherzi, ci ha assegnato un lavoro anzicchè un altro, un’opportunità anzicchè un’ altra, un itinerario sociale ed esistenziale anzicchè un altro.
E che quindi è a lei – non a noi stessi, che dobbiamo, nel bene e nel male, una consistente porzione delle nostre fortune, delle nostre grazie, delle nostre disgrazie. Del nostro destino.
Giovanni Rotolo
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