‘Tantu và ‘a quartara all’acqua finu a quannu si rumpi’ dicevano i nonni per indicare i pericoli che corrono le persone insistenti. In verità le donne erano giornalmente protagoniste di liti nelle lunghe code che si formavano di buon mattino davanti alle fontane. Ed è rimasto ormai il ricordo delle quartare rotte durante la ressa nelle fontane. A Enna c’era la fontanella nel vicolo San Miceli che dava acqua a tutti quelli del quartiere San Pietro. Un’altra fonte era al Pisciotto; un’altra ancora accanto alla porta di Janniscuro. Poi c’era l’acqua di Papardura (nel 1874 il sindaco dell’epoca fece costruire un lavatoio pubblico, ancora oggi in buone condizioni). Con i muli o con gli asini i contadini caricavano acqua dall’abbeveratoio di Kamuth, o dall”Erbabusa’. C’era acqua a volontà allo ‘Staglio’, sulla strada per Pergusa (una zona dove si accamparono gli arabi oltre mille anni fa e coniarono la prima moneta d’argento di Sicilia). A Piazza Armerina, Nicosia, Assoro, Agira, Troina, Centuripe, Valguarnera i rigattieri fornivano quartare modellate dai quartarari locali che sfruttavano i vicini giacimenti di argilla. A Calascibetta ancora ricordano ‘u stazzuni’ dove si fabbricavano le quartare. Le ‘portatrici d’anfora’ sono descritte da quasi tutti i viaggiatori stranieri. Gastone Vuiller durante il suo soggiorno nel 1893 descrive gli usi ed i costumi degli ennesi e racconta la visita al Castello di Lombardia (allora serviva da prigione), la festosa accoglienza della gente ‘pezzi d’uomini di fiero aspetto’ e l’incontro nelle vicinanze di Janniscuro di ‘giovinette e ragazzine cariche di brocche che andavano alla fontana e tornavano indietro dopo aver attinta l’acqua’. E poi la leggenda della Monachella, ‘custode eterna di tesori nascosti nei corsi d’acqua ed in fondo alle sorgenti’. Molte case avevano le cisterne scavate nella roccia per raccogliere acqua piovana. Nelle campagne i pozzi erano scavati accanto alle masserie fino a raggiungere una ‘vena sorgiva’ . ‘La quartara – dice il professor Antonino Ragona, uno dei migliori studiosi della ceramica siciliana – ha origini antichissime e già nel Medioevo esistevano maestranze di ‘cannatari’ (cannate smaltate o stagnate e dipinte di fuori), ‘quartarari’ (terracotte e scodelle) e ‘stazzunara’ (tegole e laterizi).
La produzione era vastissima e si doveva pagare perfino un’imposta lo “jus quartararium”. La quartara serviva anche per misurare la quantità di mosto versato nei tini. Poi si cominciò ad usare un recipiente di zinco’. Fino al 1940 Caltanissetta forniva tegole e quartare. Nel 1874 il Comune di Enna avviò una serie di studi per incanalare le sorgenti di Jacopo e Salerno, vicino Pergusa. Solo nel 1924 venne realizzato in parte l’acquedotto Bannata-Furma (sulla strada per Piazza Armerina) con un impianto di sollevamento e la realizzazione di quattro serbatoi (di mille metri cubi ciascuno) scavati nel secondo cortile del castello di Lombardia.
Antonio Giaimo
QUANDO LE DONNE ANDAVANO ALL’ACQUA
In passato, quando i pozzi delle nostre case in estate si asciugavano, a causa delle scarse precipitazioni invernali e primaverili, le donne attingevano, “andando all’acqua”, dalle tante sorgive di cui Enna era ricca, sia all’interno del vecchio nucleo urbano, sia nei pressi dell’abitato. Munite di “quartare”, più volte al giorno facevano la spola, dalla propria abitazione alla più vicina fonte, per approvvigionarsi del prezioso liquido. Alcune le portavano a spalla, altre sul capo, comunque…era una gran fatica. Per le nostre donne e fanciulle andare all’acqua era un fatto di normale quotidianità, fino a quando non venne completata la rete di distribuzione dell’acqua potabile in tutte le abitazioni, iniziata negli anni ’20. Le famiglie benestanti si facevano portare le quartare d’acqua presso il loro domicilio dai carrettieri “acqualora”, naturalmente dietro compenso. Per fortuna la nostra città è stata, da sempre, ricca d’acque: i tantissimi orti, esistenti all’interno delle mura, in estate venivano irrigati con le acque che sgorgavano copiose in tutti i quartieri. E’ noto che la bizantina Henna resistette ben 32 anni all’assedio dei conquistatori arabi, che già si erano impadroniti di quasi tutta l’isola, grazie ai numerosissimi pozzi e cisterne esistenti nel pianoro del monte. La città fu presa, secondo le cronache del tempo, solo per tradimento, consentendo alle truppe di El Abbass Ibn Fadhl di conquistare la rocca ennese. La circostanza di tanta abbondanza d’acqua in cima ad un monte, “convinse” certamente i nostri antenati, dai Sicani in poi, ad abitare l’altopiano degli Erei. Il cronista arabo Yaqut così descrisse la città al momento della conquista, avvenuta nell’859 d.C.: “meraviglia delle meraviglie del mondo, evvi (vidi) in cima una grande città torreggiante, e intorno ad essa terreni e giardini ….”. E il geografo El-Idrisi, nel 1139, in un suo scritto annota che “ abbondanti riserve di acque sorgive consentono alla città di resistere al più lungo degli assedi”. Le antiche fonti d’acqua del Canalicchio, Venova, Lombardia, Janniscuro, Fontanagrande, Pisciotto, Papardura e del Crivello, nota per la sua limpidezza e potabilità, e altre piccole “bocche d’acqua” sparse qua e là per tutto l’abitato venivano riscoperte e rifrequentate in caso di emergenze per siccità o quando le fontanelle pubbliche e i rubinetti delle abitazioni, alimentati dall’acquedotto comunale, costruito su progetto dell’ingegnere comunale Giuseppe Panvini, rimanevano a secco. Queste risorse idriche naturali si rivelarono preziose durante l’ultimo conflitto mondiale allorquando vennero danneggiate dai bombardamenti le pompe di sollevamento di Sant’Anna, che portano il prezioso liquido alle vasche di raccolta del Castello di Lombardia. Fino ai primi decenni del novecento, i consumi d’acqua delle famiglie erano assai modesti; la stragrande maggioranza delle case non era fornita di servizi igienici: solo qualche lavabo per sciacquare le stoviglie. Per l’igiene personale si faceva uso di bacili in metallo smaltato, in terra cotta, in ceramica e, nelle case signorili, in porcellana, sorretti da portabacili in ferro battuto o in legno, che a volte facevano parte dell’arredamento della camera da letto (mobile lavamani). Il vaso da notte, ‘u rinale, di solito conservato nel comodino, consentiva la “raccolta” delle urine notturne, mentre i càntari (recipienti in terra cotta smaltata di varie misure) servivano da “contenitori” per gli “atti grandi”. In una scena del film “Il Gattopardo” di questi càntari se ne vedono di varie forme, sparsi nella stanza da bagno, ad uso del Principe e dei suoi ospiti. Le acque sorgive attorno alla rocca del monte Enna alimentavano ed alimentano, ancora oggi, diversi abbeveratoi e lavatoi, alcuni purtroppo scomparsi per “agevolare”…la viabilità: quello di Porta Pisciotto, ad esempio, fu prima spostato e poi demolito negli anni ’60; altri sono ancora esistenti, tra cui quello di contrada Scifitello, della Venova e quello di bivio Kamut. Ma il più conosciuto, forse anche per la sua monumentalità, si trova a Papardura, sormontato dallo stemma della municipalità (un bassorilievo in pietra di Calascibetta), sito sotto il santuario del Santissimo Crocifisso, con le sue bocche d’acqua perenne, “i cannola”, che in origine erano dodici, mentre sedici sono le attigue vasche-lavatoi, dove sono stati eseguiti lavori di recupero e di conservazione. In questo ameno luogo, più generazioni di donne ennesi sono andate in passato ad attingere acqua, a lavare la lana, a far bucato (asciugando i panni sui prati) e, prima del rientro a casa, a fare il bagno ai propri figli più piccoli. Nel “Dizionario topografico della Sicilia” di Vito Amico, ad vocem, Enna, (Trad. di G. Di Marzo, Palermo, 1855) si legge: “…Si ha in moltissimi luoghi abbondantissimi fonti di acque, che naturalmente sgorgano a maraviglia nella sassosa vetta del monte, e che dalle basi della fortezza perpetuamente emanano a vari usi dei cittadini”. Ed inoltre, così descrive la scena delle donne ennesi all’acqua Gastone Vuiller nel suo volume La Sicilia, impressioni del presente del passato (Milano, 1897): “Vedevamo muoversi giovinette e ragazzine cariche di brocche; andavano alla fontana e tornavano indietro dopo attinta l’acqua. …Che curiosa e graziosa processione, in mezzo al crepuscolo, quelle portatrici d’anfore…”.
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