Il palazzo, già nei suoi esterni, si propone come uno dei più autorevoli esempi di architettura civile nell’ambito della vasta tipologia palaziale del barocco siciliano, esprimendo la sua rilevanza monumentale anche qualificando scenograficamente e prestigiosamente lo spazio urbano sul quale si affaccia.
La consuetudine di affermare la rappresentatività di un casato nell’ambito della città, soprattutto attraverso la fabbrica di imponenti edifici entro piazze o assi viari principali dell’abitato, si era affermata in Sicilia a partire dalle grandi riforme urbanistiche palermitane (il Cassero e Via Maqueda, 1565 – 1605), fino alla sistematica applicazione di politiche di riforma finalizzate al “decoro della città”, secondo una logica di pianificazione squisitamente barocca.
Palazzo Trigona della Floresta sorge nella piazza del Duomo, alla sommità dell’abitato, in un paesaggio urbano tra i più emozionanti, dove tutte le architetture che vi prospettano (il palazzo, la Cattedrale ed il vescovato), sono legate dalla trama dell’antico selciato.
Palazzo Trigona Matteo Trigona, futuro vescovo di Siracusa, ed il fratello Ottavio iniziarono ad occuparsi fattivamente di tale opera attorno al 1690, quando intrapresero le operazioni d’acquisto delle case circostanti a quelle già di loro proprietà (esistono tutti gli atti notarili).
Negli Archivi di Stato di Catania e di Enna non esistono documenti inerenti la costruzione in modo diretto, non si hanno quindi notizie certe né sul nome dell’architetto che lo progettò né sulle date d’inizio dei lavori. Tuttavia è possibile avanzare un’ipotesi, e cioè che, se non un progetto completo, almeno alcune direttive progettuali furono date dall’architetto Orazio Torriani, che sin dai primi anni del 1600 si occupava della fabbrica del Duomo, e furono attuate poi dalle maestranze locali.
Di certo il palazzo già esisteva completo nella metà del 1700, dato che negli atti notarili del notaio Ignazio Anselmo datati 19 maggio 1759, la casa è già di proprietà del Barone D. Luigi Trigona, pronipote dei baroni Matteo e Ottavio Trigona, i primi che avevano iniziato ad occuparsi della costruzione.
Il palazzo presenta la classica distribuzione interna settecentesca, con un corpo centrale maestoso e l’ingresso comunicante con il cortile interno, dove si affacciavano i corpi bassi accessori, adibiti a stalle e magazzini.
La pianta presenta un blocco allungato con un atrio e giardino, manca uno scalone d’onore così come una corte, tutti elementi tipici dell’architettura civile dell’epoca, la facciata sembra concludersi con un cornicione non adeguato al suo impaginato. Ciò induce a pensare che i lavori del palazzo non furono completati del tutto, probabilmente perché l’economia baronale di allora dipendeva dall’andamento dei raccolti e quindi molto spesso non si riusciva a completare ciò che si era iniziato.
Il sistema costruttivo è in pietra da taglio tufacea, con paramento esterno in mattoni pieni a faccia vista.
La facciata principale si articola in sette campate organizzate simmetricamente rispetto a quella centrale, la cosiddetta “tribuna d’onore”, cioè il portale e il balcone principale, e sono individuabili quattro ordini di aperture corrispondenti ai piani terra, il mezzanino, il piano nobile e il piano attico.
Riguardo alla divisione interna del palazzo, quello che di originario è rimasto, dato lo scempio che ne è stato fatto durante i lavori di restauro mai completati e prima ancora per un uso improprio dell’immobile stesso, non ci permette di trovare testimonianze delle cucine, delle camere da bagno, il cui uso si andava diffondendo proprio durante il XVIII secolo, e delle scalette di collegamento interno, rendendo il luogo incapace di raccontarsi del tutto.
I caratteri architettonici di questo palazzo in facciata, presentano delle peculiarità che lo rendono simile ai palazzi cinquecenteschi romani, inoltre tutti gli elementi decorativi presentano notevoli irregolarità, non giustificabili nel caso in cui tali elementi fossero stati realizzati proprio per esso. Anche l’interno conserva tracce (nell’ala destra) di un impianto e di elementi architettonici quattrocenteschi e cinquecenteschi, facendo immaginare che un precedente palazzo del quattrocento fosse stato inglobato all’interno di quest’ultimo durante la sua realizzazione.
Dopo un’attenta analisi, durante i rilievi e mentre si portava avanti la restituzione grafica del palazzo, si è fatta sempre più chiara la consapevolezza che tutti gli elementi decorativi del palazzo erano elementi di riutilizzo, presi cioè da una costruzione precedente e riadattata alla nuova costruzione e completata con nuovi elementi architettonici che si rifacessero al gusto di quel tempo.
Ma come sottolineato in precedenza, all’interno il palazzo nell’ala destra conserva intatte delle tracce quattro – cinquecentesche, in diversi elementi architettonici come quelli che decorano la cisterna, alcune colonne del cortile, tutti gli stipiti e gli architravi delle porte dell’ala destra del palazzo o le finestre che si affacciano su Via Floresta.
Il piano nobile conserva ancora ambienti tipicamente barocchi, senza corridoi ma con tutta una sequenza di saloni più adatti alla rappresentanza che alla residenza.
In questo piano gli ambienti sono quasi tutti affrescati con un gusto tipicamente neoclassico di tipo pompeiano e le porte (non ci sono più), in legno spesso, avevano profilature dorate di stile tardo settecentesco con influssi rococò.
La pavimentazione originaria era costituita da maioliche settecentesche commissionate a Caltagirone (sparite nel nulla eccezion fatta per alcune maioliche posto dentro la Cappella), mentre nel lungo balcone che si affaccia sul giardino le maioliche sono ottocentesche e prodotte in serie a Napoli. Anche lo stemma che è all’esterno fu realizzato a Caltagirone ed è stato danneggiato durante i lavori di restauro, un secondo esemplare si trovava nella residenza di campagna della famiglia.
Giungendo al piano nobile si entra in un primo salone cui ne segue un altro, entrambi decorati solo al centro delle volte con due medaglioni, uno dei quali raffigura lo stemma della famiglia Trigona. Il fatto che in queste sale non ci siano affreschi fa supporre che costituissero la “Quadreria”, di cui in molti scritti si parla.
Nell’ala destra si trovano altre tre sale e la camera da letto padronale con annessa sala detta “della toletta”.
La prima stanza è denominata, nei documenti di allora (1789), “anticamera”, ha il tetto a padiglione decorato con affreschi al centro della volta e lungo tutto il perimetro con motivi floreali e visi di fanciulle, mentre negli spigoli ci sono scorci di campagna.
Da questa stanza si passa alla “sala della Cappella”. Del suo arredo originario non resta nulla all’infuori di un altare collocato all’interno di una nicchia. Anche qui le pareti sono interamente affrescate con al centro della volta un “…quadrone che rappresenta la Fede, adornato con pottini e geroglifici…”.
Da qui si accede sia al salone principale, interamente affrescato con dei trompe-l’oeil, che alla camera da letto padronale affrescata nei toni del verde, a cui era annessa la “camera da toletta” che non conserva più nessuno degli affreschi descritti nei documenti.
Tutte le decorazioni di cui si parla furono realizzate tra il luglio ed il novembre del 1789 da un pittore chiamato Gerardo di Giunta su disegni dell’architetto palermitano Salvatore Martorana.
I lavori del palazzo furono ultimati nel 1803.
Altri affreschi furono realizzati tra il 1910 e il 1920 da autore ignoto, nel piano mezzanino, il cosiddetto “quartino di Margherita” dell’ala sinistra, chiamato così dal nome della baronessa Margherita Rosso di San Secondo che vi alloggiò.
Maria Vittoria Cimino