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“Il gran teatro delle dinastie” by Pietrangelo Buttafuoco

Pietrangelo Buttafuoco chiude l’epopea delle nobili famiglie di Sicilia con “una divertentissima tragedia”: un romanzo di passione e di decadenza, di leggerezza e malinconie

Nell’estate del 1951 a Leonforte, intorno a una gastroenterite del barone Rodolfo Polizzi, si inscena una “scostumata favola” o una commedia nera originata da un “ingente carico” di Teste di turco fumanti. E non si tratta dei dolci, i morbidi e profumati bignè di Scicli a forma di turbante. Sono micidiali polpette di carne di maiale tritata, lavorata con uova e pecorino, avvolta nel guanciale e fritta finché le “teste” diventano scure e pronte a essere sparate nella glassa di cipolle o nel sugo. Questo secondo l’amorosa ricetta di mamà, la baronessa madre che prepara Teste di turco per placare l’ingordigia del figlio, il barone che ha fatto indigestione. O almeno così si crede finché l’aggravarsi del mal di pancia non suggerisce una colite tossica: la guerra è ancora vicina, forse un’amebiasi, forse addirittura la sifilide che Rodolfo potrebbe aver contratto durante il servizio militare in Eritrea. Forse.

Sul povero corpo del voluminoso infante, ancora dipendente dalla madre per il cibo e i dolori di stomaco, si accende una disfida tra sfere d’influenza. Da una parte c’è donna Tina, la suocera matriarca della piccola nobiltà terriera, dall’altra la giovane nuora, Ottavia di Bauci, che ha incredibilmente sposato un notabile di paese molto al di sotto del suo rango di principessa colta e cosmopolita. Ottavia è imparentata con le più grandi casate d’Europa, è stata compagna di scuola e di divertimenti di fratelli e cugini di re. Uno squilibrio che farà danzare le due donne sull’orlo dell’abisso che separa la villa dei Russi a Leonforte, che Rodolfo vuole ristrutturare per la sposa, dal jet-set internazionale frequentato dalla giovane moglie.

La Sicilia degli anni Cinquanta con le ultime eccentricità dell’aristocrazia isolana sfavilla nel romanzo di Pietrangelo Buttafuoco, Sono cose che passano, da poco pubblicato dalla Nave di Teseo. È un tempo che segna gli ultimi fasti e le epifanie di un mondo in decadenza secolare, che scomparendo lascerà l’isola ridimensionata a una denominazione amministrativa. Dov’erano un regno connesso all’Europa, un’aristocrazia di gattopardi e di viceré e poi una borghesia di leoni, grandi imprenditori del commercio marittimo proiettati Oltreoceano; dove fu l’epopea dei contadini che occupavano feudi e reclamavano terre guidati da grandi capopopolo, resterà una Regione. La diciannovesima regione italiana stretta nelle spire della criminalità organizzata. Così ecco il racconto di mafia che, al cinema e in televisione, diventa epica contemporanea, mentre la cronaca affonda in storie di congiure e di sangue e nella ripetizione seriale di disastri amministrativi.

Buttafuoco dice che “la Sicilia ha sempre pagato la sua bellezza. Quel fascino sfacciato che trova concreta sostanza non solo nelle vestigia e nel paesaggio, ma perfino nei tratti somatici degli abitanti, nell’eleganza dei modi riconoscibile nei gesti quotidiani. Per questo poi sprofonda in un’apnea di noia amministrativa e di gentuzza con i suoi piccolissimi vizi. È un contrappasso quasi obbligato, la terra degli dèi ridotta a ricettacolo di rancori e di bassezze. Mentre i fatti di Sicilia interessano nessuno: ha la rete autostradale più sfasciata d’Europa, ne senti parlare? No. A Istanbul il passato prosegue nella modernità con costruzioni avveniristiche, da noi il ponte sullo stretto è pura fantasmagoria…”.

BY ANNAMARIA GUADAGNI per ilfoglio.it

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