Enna. C’era una volta il capoluogo di provincia
di Massimo Greco
Una delle tante anomalie contenute nella legge di soppressione delle province regionali in Sicilia, che contribuisce non poco a generare confusione tra gli attoniti cittadini, deriva dall’infelice attribuzione dello status di “Comune capofila” del libero Consorzio comunale a quel Comune dotato di una popolazione superiore. Non ci è dato sapere in cosa consiste questo appellativo né, ovviamente, lo si comprende dalla lettura del testo di legge. Riteniamo che l’illuminato legislatore siciliano abbia voluto scimmiottare il vecchio concetto di “capoluogo di provincia” per un verso, e per altro verso tentare, malamente, di individuare un presidio istituzionale più consono ai tradizionali modelli associativi dei Comuni.
Bene, il legislatore siciliano non è riuscito a fare né l’uno né l’altro. Il “Comune capofila” non può considerarsi alla stregua del Comune capoluogo di provincia che, rimarcando in linea con l’evoluzione dottrinaria di interpretazione dei principi costituzionali circa l’ordinamento degli enti locali e l’attuazione dello stato sociale le componenti essenziali del territorio e di polo di direzione, comporta anche l’individuazione fisica del centro operativo: il capoluogo. Il capoluogo di provincia ha infatti la fondamentale responsabilità istituzionale di orientare lo sviluppo economico-sociale delle comunità locali di rispettiva giurisdizione, attraverso la formazione ed attuazione della programmazione locale e regionale, la razionale organizzazione delle strutture dei servizi e l’attuazione del decentramento regionale e statale.
Lo status di “Comune capofila” è altresì mal posto perchè riferito ad un ente (il Consorzio comunale) dotato di personalità giuridica e di autonomia amministrativa e finanziaria, in cui i Comuni che ne fanno parte hanno pari dignità istituzionale. La governance del Consorzio comunale è assicurata statutariamente dagli organi di governo nominati in forza del principio di rappresentatività dei Comuni. Appare evidente che il Comune minore avrà una quota di rappresentanza negli organi esecutivi del Consorzio comunale proporzionata al suo dato demografico. Invero, l’invocato status di “Comune capofila” viene tradizionalmente utilizzato per quei modelli associativi degli enti locali che, a differenza del Consorzio comunale, risultano sprovvisti di personalità giuridica. Tipici sono gli esempi di quei Comuni che si associano per raggiungere collegialmente uno scopo (a volte provvisorio come la partecipazione ad un progetto comunitario, a volte durevole come la gestione dei piani di zona della legge 328/2000 attraverso i distretti socio-sanitari). In tale contesto, l’individuazione del Comune capofila è necessario per assicurare la rappresentanza esterna, l’imputazione dei costi e l’eventuale esercizio delle funzioni di amministrazione aggiudicatrice. I rapporti tra i Comuni coinvolti sono regolati da una convenzione o da un accordo di natura negoziale.
L’introduzione di questo appellativo oltre a configurarsi arbitrario ed improprio per i Consorzi comunali, ha comunque già generato un’inutile psicosi nelle classi dirigenti locali, scoraggiate per non potere sperimentare nuove ipotesi consortili con quel Comune che, presentandosi con una popolazione superiore, possa apparire come il Comune cooptante. Sintomatico è il congelato dialogo tra Enna e Caltanissetta per la difesa delle aree interne.
Ora, mentre ci rendiamo perfettamente conto che questa disposizione normativa fu il risultato di un emendamento presentato in aula “fuori sacco” e condiviso dalla maggioranza parlamentare del tempo al solo fine di acquisire il “via libera” alla riforma da un noto gruppo parlamentare, agli inquilini di Palazzo dei Normanni bisognerebbe ricordare che le leggi sono come i farmaci, che andrebbero usati solo dopo avere letto con attenzione le avvertenze e le modalità d’uso.