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Ipocriti 2.0. – Padre Filippo Rubulotta: rapporto fra cattolici e social

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Colloquio con padre Filippo Rubulotta sul rapporto fra cattolici e social e sull’uso e l’ abuso di parole e di Parola su Facebook.

Quanto accaduto a Laura Boldrini non è una “sciocchezza” e non è una  “goliardata giovanile”. E’ un atto misogino e gravissimo, conseguenza di parole tossiche. Parole violente e intollerabili. Parole che diventano fiamme. Della parola sui social e del rapporto fra la Parola e i cattolici abbiamo discusso con padre Filippo Rubulotta.

Tutti dobbiamo rendere conto delle norme sociali, ma il cattolico non ha forse maggiori responsabilità perché agisce in nome di Dio?
“Il laico cattolico non agisce in nome di Dio. Agisce motu proprio, ma è tenuto a portare la differenza della fede nel mondo. Il cattolico, che non deve essere clerico dipendente, ha il dovere di vivere il Vangelo agendolo, secondo quella “norma normans non normata” che tutela la Parola dal conformismo ipocrita di chi “appare diverso da ciò che è”.

L’incongruenza fra il dirsi credente e l’agire da credente, sui social pullulano le citazioni evangeliche adattate alle proprie posizioni o le belle frasi di don Tonino Bello o anche di papa Francesco, non rischia di tradire la specificità della Parola?

“Papa Giovanni Paolo II parlò di dicotomia che è da intendere come una schizofrenia spirituale. E lo stesso papa Francesco ha detto più volte che il credente deve essere credibile. Non si può attingere al vangelo  pro domo mea. Il Vangelo come disse san Francesco non va addobbato con commenti, postille o assiomi  supportati dalla Parola che diventa funzionale al mio pregiudizio o al mio fine. Oggi troppi frequentatori di messa domenicale usano inginocchiarsi e al vangelo di Gesù  e al vangelo del mondo finendo con l’essere solo “uomini mondani”.

Pensa che sui social l’io si pensi Dio?

“Sui social si consuma la relazione senza relazione che fa dell’io il soggetto unico di un dialogo inesistente. Un dialogo desideroso di quel simulacro della modernità che è il “mi piace”. Ma che cosa vuol dire mi piace? Vuol dire alimentare la vanità di chi posta sentenze, foto, verità che non ammettono altro. L’abuso della parola amicizia è l’esempio dello svuotamento di senso che si consuma dietro uno schermo. Amico è chi condivide uno spazio, un sentimento o un silenzio e non chi guarda per essere guardato con il solo scopo di rispecchiarsi in una superficie difettosa che ci rimanda l’immagine storpiata di noi stessi. Gesù chiedeva di rinunciare alla vanità dell’io imperante e oggi nel suo nome altro non si fa che ingigantire un già ipertrofico ego”.

Perché? Perché non si più capaci di guardarsi negli occhi?

“Perché si ha paura dello sguardo altrui. Gesù  guardava negli occhi. Guardò anche Pietro benché lo avesse tradito. E nello sguardo e nella mimica del volto che si nasconde quello che la parola non dice. Chi non è capace di questo non è capace di dialogare o più semplicemente non vuole dialogare. Vuole solo ascoltarsi ed essere ascoltato. Papa Benedetto XVI  aveva parlato di dittatura del relativismo cioè dell’io come del criterio unico di verità, ma la verità frammentata è come il pezzo di una vetrata gotica. Fa passare solo un fascio di luce e non l’intera gamma dei colori”.

La Chiesa di papa Francesco non rifiuta i social anzi.

“I social sono strumenti utili o futili. E’ l’uomo che schiaccia i tasti che fa la differenza”.

Grazie.

 

 

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