Sotto i merli del castello angioino di Sperlinga c’ è un tesoro da scoprire. Il più vituperato dei castelli siciliani, famoso per aver concesso asilo ai francesi durante la guerra del Vespro, nasconde sotto le sue visceri tracce di antiche civiltà e culti misteriosi. Un gruppo di studiosi locali, tra cui un geologo, un archeologo, uno storico, un antropologo, hanno portato alla luce le tracce nascoste del passato. I sei autori di “Sperlinga, città antica di Sicilia”(edizioni Novagraf, 158 pagine, 20 euro) nell’ ottica di valorizzare i siti urbani dell’ ennese come impianti residuali delle antichissime «polis»,(si pensi a Henna, Assoro, Agyrion, Kenturipe, Herbita (Nicosia), Galaria (Gagliano) Trinakia (Troina), si sono imbattuti in tracce archeologiche sconosciute, dettagliatamente inventariate e ricostruite nel volume ricco di 275 immagini. Il borgo rupestre sotto il castello viene passato ai raggi x attraverso l’ indagine delle decine di grotte e spelonche, un tempo abitate, al centro di tanti reportage giornalistici fin dagli anni Sessanta, oggi viene proposto per il vincolo etnoantropologico dalla Soprintendenza, visto il permanere dell’ arredo tradizionale contadino-pastorale per cura del Comune che ne ha fatto un parco urbano. Qua e là sono stati individuati dagli studiosi tratti di mura greche e tombe preistoriche castellucciane, soprattutto verso la Torre est (Contrada Farina) e verso il versante sud con l’ imponente Balzo. Poi tratti di fortificazioni romane vicino la vecchia chiesa di Sant’ Anna e tracce delle torri civiche, come quella Sveva e quella della porta ovest. Infine I resti della porta sud e della «torre dell’ orologio». Ma sono arrivate anche delle sorprese: sotto le volte dell’ ala est del castello, un tempo aspre prigioni in roccia, si è scoperto un piccolo santuario preistorico, con i resti dell’ altare circolare, già segnalato di sfuggita da Houel nel 1785; ma nessuno si era finora accorto che sopra c’ era una campana scavata nella roccia, con foro a imbuto, nel più classico stile miceneo. Le sorprese non finiscono qui: nell’ ala ovest del castello, nei sotterranei, è stato scoperto un ambiente con dodici nicchie, da sempre considerato appendice agro-pastorale del castello (che lasciava incuriositi i visitatori per un raggio di sole che penetrava dall’ alto). Anche qui la scoperta di un ipogeo a campana con le vicine canalette di gronda che ricordano i bacini lustrali degli antichi santuari. Sia Paolo Orsi che Dino Adamesteanu avevano condotto nell’ alto ennese brevi campagne di scavo, ma il dato antropologico del borgo rupestre abitato ha richiamato nel corso degli anni soprattutto esperti di discipline etnologiche. Gioacchino Lanza-Tomasi che negli anni Sessanta, con un bel libro fotografico, aveva rivalutato il maniero di Sperlinga, forse mai avrebbe ipotizzato che quel castello di roccia sarebbe divenuto per gli studiosi un modello di architettura da «escavazione». Dopo il castello si passa alle vicine contrade, tra cui la già nota Balzo della Rossa, luogo individuato dal Messina come esempio di moschea sotto roccia, e a poca distanza il cosidetto castello di pietra individuato da Pietro Bianchi come «antica fortezza trogloditica disposta in vari ambienti a più piani… «. Più a est, verso Gangi la masseria fortificata di Santa Venera, luogo di feste campestri dedicate alla Santa, col piccolo santuario riedificato negli anni Trenta. La particolarità della festa in questo luogo solitario, «apparentemente inconcepibile in un territorio privo di centri abitati d’ età moderna», ha indotto i sei studiosi a verificare le sopravvivenze di antichi culti alle divinità femminili. Sono così emerse le tracce di un cammino processionale verso contrada Cicera, il cui inizio è segnalato da uno sperone in quarzarenite a forma triangolare. Sotto lo sperone, che scenograficamente domina la vallata, un ipogeo sormontato da un disco in pietra ad altorilievo, dal diametro di un metro, individuato come uno dei simboli della dea Cibele. Le rocce sulla sommità dello sperone sono sagomate a guisa di altari, con scale intagliate nella roccia. Da qui in poi il cammino processionale presenta qualcosa di interessante in località grotta Campana: diverse tombe rupestri collocate negli speroni rocciosi sparsi su tutto il territorio a sud di monte Barbagiano. In uno di questi speroni si apre una tomba a tholos a pianta rettangolare «con volta perfettamente ogivale scavata nella roccia quarzarenitica» che gli autori mettono in relazione con quella micenea del tesoro di Atreo (si veda il grande foro sulla sommità che dall’ esterno si presenta come l’ imbocco di un pozzo e all’ interno la perfetta campana scavata nella roccia). L’ ingresso, fortemente rimaneggiato come del resto l’ interno, è a forma trapezoidale. Al centro della campana una fossa circolare probabile deposito votivo, come quello ritrovato nella grotta a Tholos di Alia, in località Gurfa, già oggetto di studi antropologici per le dimensioni. Il cammino prosegue lungo la stradina in acciottolato che si inerpica verso Masseria Cicera. Dal sentiero si notano numerose testimonianze rupestri lungo il vallone San’ Antonio. Tra queste, due tombe affiancate, formanti unico ambiente, con tetto a spiovente. Sulla parete a sinistra dell’ ingresso tracce di scrittura indecifrabile e sul piano pavimentale fosse rettangolari dove venivano deposti i defunti. Verso la sommità, infine, due «naiskoi» intagliate nella roccia come quelle già viste a Palazzolo Acreide in località Santuna. Le grandi rupi in calcarenite friabile – la stessa roccia che affascina per I riflessi e le venature profonde i tanti viaggiatori che si recano ogni anno a Petra, in Giordania, – sono sparse tra il Vallone di Sant’ Antonio, l’ abitato di Sperlinga, le contrade Vaccarra, Quaranta, Sant’ Ippolito, Perciata, Cirino, Roccacorta e Capostrà citate e studiate nel volume. Queste rupi isolate appaiono tutte di analogo interesse antropologico e archeologico per il gran numero di grotticelle scavate alla maniera sicula delle grandi necropoli (come a Pantalica), con una continuità di insediamento che va dall’ età del bronzo fino ai nostri giorni, considerato l’ uso agro-pastorale e talvolta religioso, tutt’ oggi documentato. Va da sé la notizia citata dall’ Amari oltre un secolo fa, che gli arabi nel conquistare l’ interno dell’ isola, si trovarono di fronte gli abitanti di decine di villaggi bizantini fortificati che apparivano e scomparivano nel nulla come «inghiottiti dalla terra». Oggi questi villaggi vengono rintracciati e studiati senza tabù alcuno verso le tracce di civiltà non-classiche, come nel caso di contrada Canalotto a Calascibetta o nella vicina Villarosa.
Claudio Paterna
già pubblicato su “La Repubblica” – Palermo del 21/10/2008
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