venerdì , Marzo 14 2025

La persona: valori ed emergenze

Parlare della persona è quanto mai intricato e imperscrutabile anche a partire dallo stesso soggetto che sovente crede di avere nozioni, ma di fatto è misterioso a sé medesimo. Eppure abbiamo la pretesa di conoscerci e di sapere di tutti senza risultati sostanziali.
Molti studiosi della psiche hanno tentato di selezionarla ma nessuno veramente sa che cosa sia. Come nel mondo scientifico, andiamo per supposizioni e per definizioni (sperando che esse siano esatte fino a quando non sopravviene un altro studio che ne capovolga la “scientificità”).
Non avendo alcuna pretesa, mi avventuro a fare qualche riflessione, frutto di alcune convinzioni e di una scrematura avvenuta nel tempo.
La prima riflessione che mi viene è che l’uomo, secondo la classica definizione, è anima e corpo, materia e forma, sostanza e accidenti, come la concepirono Aristotele e San Tommaso. Poiché possiede inscindibilmente questa dualità, mi muovo su questi costituendi che sono le coordinate dell’essere uomo-donna. Non mi soffermo, però, sul concetto teorico di persona ma sul criterio di affermarsi come individuo e come pluralità, ovvero come micro e macro cosmo, in una linea di orizzontalità.
Io e gli altri (o altro, come mondo circostante, anche se teoricamente esprime qualcosa che esula dalla nostra reale conoscenza.) sono i due elementi portanti dell’essere e del divenire sulla terra, anche i due pilastri che conducono la persona umana alla felicità tout court. In questo percorso non vorrei ignorare affatto la presenza preponderante di un Essere Supremo che avvolge la creazione tutta e nel quale siamo e ci muoviamo.
L’uomo vive la sua individualità partendo dal sé. Se non si conosce in modo sviscerato, non sa quali sono le sue idee e le forme di realizzazione, anche se sovente sono modificate inconsapevolmente dall’esterno.
L’essere isolato fisicamente dal resto del mondo non fa parte della propria indole poiché egli è naturalmente socievole, ma per essere tale ha bisogno di prendere coscienza metafisicamente di ciò che è. Egli è un essere razionale, affettivo, sessuato che, se considerati in modo equilibrato, lo conducono verso la conoscenza e l’aspirazione del sé. Eppure lui ha bisogno di ritrovarsi sovente per capire e coordinarsi nei pensieri e nelle azioni: il silenzio e la meditazione sono uno strumento forte. Purtroppo l’irrazionalità ci porta verso lidi non programmati e isole che favoriscono l’abbandono a un destino inesorabile di autodistruzione.
L’isolamento dovrebbe favorire il rientro in noi stessi, per una introspezione, una contemplazione, un amore, una riflessione di collocazione… invece, spesso, porta verso un’alienazione pericolosa e la perdita della serenità spirituale.
Tutto deve partire da una reale umiltà che non è uno sminuire il soggetto ma riconoscere che ignoriamo molte cose per stimolarci a un ulteriore approfondimento. Sovente il principio è capovolto e chi ignora urla (proprio perché non sa e vorrebbe farsi sentire, anche perché non ha una visuale ampia delle opportunità e delle probabilità che si presentano a lui) e chi ha l’intelligenza tace perché se parlasse potrebbe sbagliare e la sua proposta essere sminuita dalle tante altre possibili. «Le persone sono come le vetrate – diceva Elisabeth Kübler-Ross – scintillano e brillano quando c’è il sole, ma quando cala l’oscurità rivelano la loro bellezza solo se c’è una luce dentro». E così ci sono «molti personaggi perché non sanno essere persone» (Gesualdo Bufalino).
La solitudine in sé non porta necessariamente all’alienazione dal mondo, se vissuta con consapevolezza favorisce l’autostima e la coscienza di essere liberi, popolo in cammino, comunità. Al contrario la convivenza diventa sovente estraneazione, incubo, ostilità, oppressione… quando non si trova l’equilibrio di capire quel che siamo e il ruolo nel contesto del quale ci troviamo, non a caso.
Accogliere noi stessi e gli altri non è affatto semplice, ma il nostro percorso deve condurci a capire che siamo stati creati non nell’individualità ma anche per gli altri. La mancanza dei nostri simili, per noi «un fatto viscerale e non programmato» (Juan Arias), deve aiutarci a prendere coscienza del nostro essere e del bisogno di relazionalità. La privazione ci isola sempre più e ci porta lungo un percorso conflittuale con noi stessi e con il cosmo, avviandoci a quella traumatizzazione esistenziale. La persona è come il filo di una corda. Fino a quando è coeso e integro dà ed è forza, appena comincia a sfilacciarsi è l’inizio della disintegrazione e la fune si spezza.
Camminiamo, allora, con la consapevolezza che non siamo soli e che con noi ci sono altri con i quali stiamo facendo lo stesso percorso e se stiamo bene tutti, lo sono anche le singole persone. Tutto, però, deve stimolarci a dare ognuno quel contributo di cui siamo capaci per costruire quella porzione di mondo nel quale siamo e ci muoviamo. Ma, ahimè! «Ci sono più persone morte che vive. E il loro numero è in aumento. Quelle viventi diventano sempre più rare» (Eugène Ionesco).
Le nostre facoltà devono essere un contributo che offriamo agli altri, non per invaghirci, ma per sollecitarli a essere operosi e testimoni di un mondo, non a noi estraneo, ma che ci appartiene come noi stessi. «Ogni persona che conosci nella vita – dice Giulia Guglielmino – è una foglia che arricchisce il tuo albero. Molte si perdono col vento, altre non si staccheranno mai».
Noi non dobbiamo essere foglie secche da essere buttate nel fuoco ma sempre verdi che danno splendore all’albero e assolvono alla crescita della pianta stessa.
Rendiamo il mondo una fucina di laboriosità e di altruismo e allontaniamo la tentazione di essere spettatori inerti, perché potremmo rimpiangere le nostre omissioni come un peso sulla coscienza per l’eternità. Diceva Albert Einstein che «Il mondo è un posto pericoloso, non a causa delle persone che compiono azioni malvagie ma di quelle che osservano senza fare nulla».
Non aspettiamoci che gli altri costruiscano per noi ma siamo noi a innalzare il monumento all’umanità perché in esso molti si rispecchino e trovino la vergogna di non appartenervi. Ma anche nell’amore di noi stessi ritroviamo l’empatia per gli altri e viceversa.

Salvatore Agueci

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