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Fava larga, o turca di Leonforte: un’eredità culturale, identificativa per i leonfortesi

Legume di origine antica, già rintracciabile nel Neolitico nasce nell’aerea mediterranea e nel Medio Oriente, ricoprendo negli anni una diversa valenza alimentare e culturale.
Oggetto di tabù da parte della casta sacerdotale egizia e della scuola pitagorica, era invece segno di augurio nell’Antica Roma, durante la festa dedicata alla dea Flora: protettrice della natura in fiore; tuttavia a festeggiamenti conclusi, la fava tornava ad essere un alimento impuro, in quanto legume, veniva infatti associato al mondo dei morti e alle pratiche esoteriche; dimostrazione ne è il suo ritrovamento in tombe egizie risalenti a più di 5.000 anni fa.
Era consuetudine usare le fave nei riti religiosi come cibo per i defunti, sia in terra romana che in terra ellenica, in quanto rifugio delle anime dei morti all’interno dei suoi semi. La fava per la sua conformazione fisiologica simboleggiava quindi una complementarietà tra la vita esterna- essoterica- e la vita nascosta-esoterica, la continuità tra la vita e la morte.
Punta massima di tale superstizione era data dal fatto che il solo proferire la parola stessa, fosse vietato allo stesso Pontefice Massimo.
Ciò non l’ha però privata di un dovuto riconoscimento del suo valore energetico; caratteristica questa, valorizzata a tutto spiano solo dopo il 13° secolo, in cui fu consentita una più diretta ed equa distribuzione grazie alla distribuzione del prodotto nei mercati cittadini. La fava otteneva finalmente un valido riconoscimento grazie anche alla sua capacità di resistere a lunghi periodi di conservazione, potendo essere consumata sia cruda, che cotta, condita o mischiata in minestre tipicamente contadine; ha infatti costituito per anni la cosiddetta “carne dei poveri”.
Periodi bui hanno nuovamente colto il legume nel corso dei secoli a seguire; ripescato soltanto dopo gli anni ’70, in vista di una nuova filosofia di vita gastronomica all’insegna della dieta povera mediterranea.
Per poter capire la valenza della fava, nello specifico quella leonfortese, nel presente e in una sua collocazione futura, è necessario aprire uno spaccato sul movimento Slow Food. Fondato da Carlo Petrini, diviene a ridosso degli anni ’90 un’associazione internazionale con sedi in varie Nazioni, e si esprime attraverso eventi: “Terra Madre”, consistente in un meeeting mondiale tra le comunità del cibo; manifestazioni: quali Slow Fish e Salone del Gusto; e progetti: i cosiddetti “Presidi”.
Scopo di questi ultimi, è il sostegno alle piccole produzioni di nicchia che rischiano l’appiattimento qualitativo di quegli alimenti ormai oggetto di omologazione industriale globale; tesa ad una generalizzazione dei gusti e consumi che rischia di far sparire la genuina “qualità” che ancora risiede nelle colture tipiche e specializzate per la manualità e integrità d’uso.
E’ il caso della Fava Larga di Leonforte, da anni Presidio Slow Food (l’unica insieme alla Fava di Carpino-Puglia) e che riscuote successo in numerose manifestazioni nazionali e internazionali del gusto come nei Saloni di Milano, di Bologna e tante altre manifestazioni. Oggi la fava larga è un prodotto I.G.P. (Identificazione Geografica Protetta): marchio di tutela, che come tanti altri; era inizialmente marchio tutelato da norme nazionali. Oggi questi marchi, rappresentano invece una tutela completa, da un punto di vista giuridico all’interno dei Paesi della Comunità Europea.
A tener forte il legame tra passato e presente è, oltre la sua storia anche la sua tecnica di impianto e coltura. La fava larga rientra infatti tradizionalmente nella rotazione agraria con i cereali e il frumento, data la sua capacità di arricchire il terreno di azoto.
Dopo la semina tra novembre e dicembre viene più volte sarchiato il terreno dopo il germoglio della pianta, per favorirne un limpido sviluppo; fino a giungere nei mesi di marzo-aprile, in cui si ha la formazione delle “favaiane”(favo allo stato verde) e costituiscono un ottimo condimento per la pasta o fungono addirittura da secondo piatto. Tra maggio e giugno si ha la maturazione definitiva del legume; le cui piante vengono falciate, fatte essiccare ed infine battute in modo da ottenere un insieme di paglia e semi ancora interi. Si attua conseguentemente la tecnica dello “spagghiari, si dividere la paglia dai semi attraverso delle grandi pale che li gettano in aria.
Questo metodo come anche la sarchiatura sono dei metodi manuali tramandatisi nel tempo e hanno il pregio di evitare l’uso di diserbanti seppur a costo di una grande pazienza e fatica fisica.
Raccolte le fave nei sacchi, vengono sterilizzate e passate a setaccio per separare le più piccole dalle più grandi: le prime serviranno per l’alimentazione animale; le seconde per l’alimentazione umana.
Piatti tipici estraibili dai due tipi di coltura per i consumi rispettivamente a fresco e a secco sono:
A fresco (marzo-aprile): le già citate favaiane; condimento per la pasta; “a frittedda”; “a pasta ccu i favi ddu munni”
A secco (metà luglio): “u maccu”; “favi ‘ngriddi”; “favi caliati”.
Molteplici sono quindi le qualità della fava leonfortese che gode di un alto grado di adattabilità anche a condizioni climatiche dicotomiche e a qualsiasi tipo di terreno; si caratterizza inoltre per la forma larga, la facilità di cottura, il gusto particolare e dall’esser poco farinosa (rispetto ai parametri delle fave). Le zone di produzione di Leonforte comprendono i comuni di Leonforte, Assoro, Nissoria, Calascibetta, ed Enna, ma consistono ormai solo in piccole oasi che si avvalgono di tecniche colturali non più fruenti di bestiame e forza fisica, ma di macchine agevolatrici per la semina, la sarchiatura e la trebbiatura; senza mai perdere l’apporto dell’uomo chiaramente.
Rilevante la funzione sociale che ha rivestito nel tempo facendo da collante alla tradizione culturale e alimentare di ieri e di oggi: prima forma esoterica di comunicazione tra la vita e la morte; poi forma di sostentamento per generazioni (“carne dei poveri”) e conseguentemente anche forma di identità sociale di classe in un contesto in cui buona parte della forza lavoro era impegnata nell’agricoltura; pretesto o possibilità per meglio dire di socializzazione erano i momenti di coltura, e ancor più nei periodi di trebbiatura.
Fondamentale si dimostra mantenere la cultura e la coltura di tale prodotto di nicchia come stimolo a mantenere viva la memoria storica legata a quella culinaria in cui vi si traduce come piatto.

Ricette, tratte da “Leonforte – Tradizioni in Tavola” Scuola Media D.Alighieri
La Frittedda
Ingredienti: fave verdi, tenere e appena raccolte, cipollette, olio extravergine di oliva, pancetta, pepe nero (a piacere).
Preparazione: si sbucciano le fave, si scolano e si mettono in casseruola dove sono state soffritte con olio extravergine di oliva la pancetta e le cipollette; si aggiunge il sale e si copre il tegame con il coperchio. Si lasciano cuocere a fuoco lento mescolando ogni tanto, avendo cura di usare un cucchiaio di legno, e controllare la cottura. Se le fave sono locali — e solo con quelle — la frittedda avrà un sapore insuperabile per la sua dolcezza.

Fave bollite
E’ usanza cucinare le fave secche con aromi vari. La sera prima si lasciano a bagno private della parte superiore della buccia; l’indomani si fanno cuocere a fuoco lento assieme a cardi selvatici, bietole, olive nere, sale e pepe. Si condiscono con olio extravergine di oliva. Si preparano nelle fredde serate invernali perchè ben si “sposano” con il vino.

Il Macco
Ingredienti: fave secche sgusciate, sale, pepe, olio extravergine di oliva, qualche seme di finocchio selvatico, finocchietti selvatici, bietole di campagna, cannella.
Preparazione: si mettono a cuocere, a fuoco lento, le fave secche completamente sgusciate, in acqua tiepida.  metà cottura si aggiungono un pò di bietole assieme a dei finocchietti selvatici: si condiscono con sale e con pepe nero.

 

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